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La formula del Buongiorno, secondo Mattia Feltri

Maurizio Crippa

Una rubrica quotidiana, scritta scavando bene e meditando bene, perché solo così le idee prendono una strada nuova

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Prima trappola da evitare, secondo l’ammonimento di Emil Cioran: “Non si deve scrivere con l’idea di rivolgersi agli altri. Si deve scrivere per se stessi”. Condizione indispensabile “perché gli altri possano assimilarlo con profitto”. Seconda trappola: prendersi troppo sul serio. Ci cascò persino De André, “nella sua grandezza per un momento collassante, quando espresse l’irrimediabile avvilimento per le canzoni scritte contro la guerra. Eppure la guerra c’era ancora”. Antidoto: ricordarsi di come rispose Karl Kraus quando gli chiesero di esprimersi sugli “effetti e le conseguenze della Rivoluzione russa sulla cultura mondiale”. Ma in dieci o venti righe. Terza trappola, pensare di inventare un genere in voga dai tempi di Matilde Serao: il corsivo breve. Quarta trappola, non prendersi sul serio. Perché “non c’è niente di più tronfio, di burbanzoso di scrivere sulla prima pagina”. E allora bisogna essere seri, “concedersi la decenza di rifuggire dall’infingimento, dalle false modestie, dagli ammiccamenti, dalle accondiscendenze”. E questa trappola, descritta da sé medesimo, Mattia Feltri prova a evitarla quando ogni giorno scrive per la Stampa il suo Buongiorno: “Dire quello che c’è da dire, se necessario essere distanti, sgradevoli, persino elitari, essere contraddittori perché il pensiero coerente è un pensiero sterile”.

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Prima trappola da evitare, secondo l’ammonimento di Emil Cioran: “Non si deve scrivere con l’idea di rivolgersi agli altri. Si deve scrivere per se stessi”. Condizione indispensabile “perché gli altri possano assimilarlo con profitto”. Seconda trappola: prendersi troppo sul serio. Ci cascò persino De André, “nella sua grandezza per un momento collassante, quando espresse l’irrimediabile avvilimento per le canzoni scritte contro la guerra. Eppure la guerra c’era ancora”. Antidoto: ricordarsi di come rispose Karl Kraus quando gli chiesero di esprimersi sugli “effetti e le conseguenze della Rivoluzione russa sulla cultura mondiale”. Ma in dieci o venti righe. Terza trappola, pensare di inventare un genere in voga dai tempi di Matilde Serao: il corsivo breve. Quarta trappola, non prendersi sul serio. Perché “non c’è niente di più tronfio, di burbanzoso di scrivere sulla prima pagina”. E allora bisogna essere seri, “concedersi la decenza di rifuggire dall’infingimento, dalle false modestie, dagli ammiccamenti, dalle accondiscendenze”. E questa trappola, descritta da sé medesimo, Mattia Feltri prova a evitarla quando ogni giorno scrive per la Stampa il suo Buongiorno: “Dire quello che c’è da dire, se necessario essere distanti, sgradevoli, persino elitari, essere contraddittori perché il pensiero coerente è un pensiero sterile”.

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Fu una sera del 2016 sul tardi, e c’era gente a cena, quando Maurizio Molinari, allora direttore della Stampa, gli si precipitò in casa. Venti minuti prima gli aveva intimato: ho bisogno di parlarti ovunque tu sia. Gli disse che avrebbe dovuto sostituire Massimo Gramellini sulla prima pagina. Nel Buongiorno che Gramellini aveva inventato diciassette anni prima, scritto per diciassette anni con un successo universale. Feltri rispose: “D’accordo, ma lo scriverò a modo mio”. Che non è il buonsenso che tutti avrebbero di evitare un’eredità così pesante, un camuffamento goffo. Non fare il surf sul pelo dei lettori, non fare omelie buone per altre messe, non fare l’acrobata sul filo. Che sono rispettabili modi per cesellare un pensiero nella misura stretta di venti righe, ma non aiutano a capire, come invece impone Cioran.

 

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“La domanda che mi faccio è: per che cosa hai vissuto 51 anni, se non per capire?”, dice Mattia Feltri. “Quando rimprovero a Di Maio, e capita spesso, le cose che dice non posso negare a me stesso che molte di quelle cose le ho pensate e dette anche io, quando avevo 18 anni. Ma ora ne ho 51, e lui del resto 35. Scrivo perché possano essere utili persino a lui per pensare, capire, cambiare”.

 

Feltri ha da poco iniziato l’avventura come direttore dell’HuffPost e continua a scrivere, sinergicamente, il suo Buongiorno. Ne ha fatto una cosa diversa, sua. Ma non è questione di genere, di stile, tantomeno di voler tenere un discorso sugli italiani (“mi terrorizza l’idea”). Se gli chiedi qual è la formula, risponde che vorrebbe mettere a disposizione una riflessione “colmata di trent’anni di lavoro, di letture, di passioni, non per dire quello che penso ma quello che ho meditato, rimettere continuamente in discussione le idee, far loro prendere una strada nuova”. Ha un suo metodo di lavoro. Spesso l’idea è un percorso inverso, tornare a una annotazione, a un libro, a una citazione che illuminino la giornata meglio dell’ultimo tweet.

  

“Se Simone Weil nel ’38 ha scritto quelle cose, puoi star certo che sono perfettamente attuali anche nel 2020”. Basta leggere la raccolta (provvisoria) dei sui Buongiorno, che ora esce da Marsilio col titolo “Il libro dei giorni migliori - Ritratto di un Paese ad altezza d’uomo” per rendersi conto che non sono appiccicati a un oggi già diventato ieri nel breve volgere del pesce nella carta. Ci sono temi che ritornano, la democrazia per come è stata costruita o sfasciata, lo stato di diritto. Il fondo duro o ottuso del nostro paese. Senza confondersi mai con gli inquisitori o i predicatori. Uno stile che continua a essere raro, in un paese in cui se dici Buongiorno, gli altri pensano che tanto “domani è un altro giorno”.

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