PUBBLICITÁ

Renato Pozzetto ha portato la civiltà nelle case italiane. Prima di lui, il diluvio

Michele Masneri

Il comico, fresco ottantenne, ha attraversato la stagione greve dei film con la poliziotta e la bidella

PUBBLICITÁ

Nel paese attonito per la “cancel culture” che sogna il politicamente scorretto senza mai aver avuto il corretto, in un paese del resto che ha avuto gli antidivi senza avere i divi, andrebbe reso finalmente omaggio a Renato Pozzetto che ha combattuto da anni una sua battaglia per la “diversity” come una Oprah o una Ellen De Generes attiva non a Hollywood ma a Laveno Mombello – questo abbiamo – nella forma di entertainment più identitaria italiana, la commedia. Pozzetto, oggi fresco ottantenne, ha attraversato la stagione greve dei film con la poliziotta e la bidella e l’ammicco e il turpiloquio portando un po’ di civiltà nelle case italiane.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Nel paese attonito per la “cancel culture” che sogna il politicamente scorretto senza mai aver avuto il corretto, in un paese del resto che ha avuto gli antidivi senza avere i divi, andrebbe reso finalmente omaggio a Renato Pozzetto che ha combattuto da anni una sua battaglia per la “diversity” come una Oprah o una Ellen De Generes attiva non a Hollywood ma a Laveno Mombello – questo abbiamo – nella forma di entertainment più identitaria italiana, la commedia. Pozzetto, oggi fresco ottantenne, ha attraversato la stagione greve dei film con la poliziotta e la bidella e l’ammicco e il turpiloquio portando un po’ di civiltà nelle case italiane.

PUBBLICITÁ

 

Prima di lui, il diluvio. Se De Sica rifiutava il ruolo del capocomico nei “Vitelloni” (1953) perché non pronto a fare l’anziano daddy che ci prova con Leopoldo Trieste, in un abbordaggio di provincia in tempi pre-Grindr, sull’Aurelia Gassman e Trintignant scorrevano tra il fattore Occhiofino, cioè finocchio, nel Bildungsroman tirrenico del “Sorpasso” (1962).

La politica poi offriva alla società omo-boomer-fobica un fondale perfetto: mentre Emilio Colombo e tanti altri pezzi grossi Dc tramavano in un clima da “don’t ask, don’t tell”, Ugo Tognazzi nel “Complesso della schiava nubiana”, 1965 (regia di Franco Rossi), faceva un integerrimo deputato democristiano sorpreso in un “balletto verde”, così si chiamavano allora, tra antiquari di provincia. E corniciaio era Tognazzi poi protagonista di “Splendori e miserie di Madame Royale” (di Vittorio Caprioli, 1970), e poi ci sarà naturalmente “Il Vizietto” (1978), con una famiglia molto queer piena di mossette e stereotipi di siderale successo al botteghino.

PUBBLICITÁ

 

Intanto le commediole a base di piccoli imprenditori della bassa, amanti sui tetti, onorevoli in città, offrivano battutacce riprovevoli ma oggi molto rimpiante da tutto un pubblico stravolto che invoca gli etero pride. “A me mi hanno rovinato i mormoni, ho il novanta per cento di mormoni femminili”, dice Lino Banfi in “La moglie in vacanza… l’amante in città” (1980), in cui, improbabile maggiordomo pugliese in una casa molto chic di Parma, si finge gay per poi assaltare Barbara Bouchet che dirà poi al suo amante Tullio Solenghi: “Mi lasci qui in balìa di un culattone con la crisi di rigetto”. Risatone! Oggi Banfi ottantaquattrenne dice che non c’era sessismo in quei film, e però quest’Italia di quarant’anni fa ogni tanto torna fuori in realtà locali, tipo il primario di Cittiglio (vicinissimo a Laveno) che già che c’è da del “frocio” al paziente sul tavolo operatorio (e Libero: son ragazzate, suvvia). Anche in “Spaghetti a Mezzanotte” (1981), sempre di Martino, Lino Banfi alias avvocato Lagrasta deve far finta d’essere omosessuale per nascondere la sua tresca con la moglie di un severo giudice, in uno scenario da Hollywood Party in una villa torinese. Il 1981 sarà poi l’anno trionfale di “Fracchia la belva umana” di Neri Parenti, col suo “benvenuti a ‘sti frocioni” indirizzato a Lino Banfi qui in versione commissario.

 

Poi però arrivò Pozzetto, che pur in pellicole non magari da Sundance si incaricava però tipo serie Amazon o Netflix di oggi di sdoganare fenomeni e modernità. In “Ricchi, ricchissimi… praticamente in mutande” (1982) impersona il piccolo imprenditore Alberto Del Prà, alle prese con la crisi della piccola e media impresa e col calo della nautica, e che vuole convincere la moglie Edwige Fenech a darsi a un emiro arabo in cambio di importanti commesse per yacht. Ma poi si avrà il classico ribaltamento quando l’emiro, dotato di harem tutto maschile, esprimerà una preferenza inattesa; e Pozzetto, convinto dalle sue maestranze, dovrà cedere. Ma già tre anni prima c’è “La patata bollente”, 1979, il film più politico della fase gender di Pozzetto, regia di Steno: Bernardo Mambelli è un operaio milanese con la passione per il pugilato. E’ soprannominato “il Gandhi”, milita nel Pci, e in una sera di tregenda ricovera a casa l’omosessuale Claudio (Massimo Ranieri) picchiato dai fascisti. Di lì, una serie di equivoci porteranno il partito e la fidanzata (Edwige Fenech) a credere che il Gandhi sia diventato gay; il Gandhi viene dunque spedito in Unione sovietica per essere rieducato; di ritorno, non solo non farà autocritica, ma troverà il suo appartamento col design tutto rifatto da Claudio. Altro scandalo, e un ballo very hot alla Festa dell’Unità. “Un Tango diverso” fu scritto appositamente da Totò Savio, leader degli Squallor, diventato poi inno ufficiale del gay pride nazionale a Bologna nel 2008 (“Chiudi gli occhi se vuoi / questo è un tango diverso / balla meglio che puoi è un tantino perverso / tango languido e sia contro l’ipocrisia / dare scandalo è l’unica via”).

 

PUBBLICITÁ

Il tango risolveva del resto molte situazioni quando si voleva filmare qualcosa di gay in Italia: ecco quello delle Capinere, ballato da Pozzetto e Leopoldo Mastelloni in “Culo e camicia” (1981). Renato (Pozzetto) e Alberto Maria (Mastelloni) formano da dieci anni una coppia collaudata: un giorno però Renato conosce la fotografa Ella e si innamorano. Il tango delle Capinere era poi opera di Cesare Andrea Bixio, nipote del patriota Nino. Come Nino era anche l’emigrante pugliese Giancarlo Giannini in “Sessomatto” (1973, Dino Risi), il nostro “Transparent”; Nino scoprirà la donna della sua vita in un fratello non cisgender all’ombra di Porta Nuova e prima delle metropolitane arcobaleno. E Milano, con conflitti tra città e campagna e anticipando dibattiti di archistar, è quasi sempre il set di Pozzetto: in “Mani di fata” (1983, di Steno), fa un ingegnere navale che non trova lavoro, nonostante un brevetto per una casa galleggiante, ed è costretto a fare il domestico presso una contessa interpretata da Sylva Koscina, con Maurizio Micheli che lo insidia. Nel frattempo, la moglie di Pozzetto, Eleonora Giorgi, donna in carriera, è insidiata a sua volta da una superiora femmina. Tutto si risolverà nel migliore dei modi, coi gender e i ruoli ristabiliti, quando Pozzetto riuscirà a piazzare il suo brevetto e a comprarsi così una casa nella Torre Velasca. E se in “Fico d’India” (1980, sempre Steno), con una serie di equivoci la convivenza coatta tra un sindaco protoleghista e un playboy locale, Aldo Maccione, causerà le ire di Gloria Guida, nel 1981 in “Nessuno è perfetto”, remake bergamasco di “A qualcuno piace caldo”, di Pasquale Festa Campanile, Pozzetto fa un piccolo industriale del vino rimasto vedovo, vessato dalla suocera, che si innamora di Ornella Muti transgender. Insomma, se Beppe Sala volesse tornare sulla questione statue, ecco un ottimo candidato, perfetto per la costituency di Porta Venezia; e “Giardini Renato Pozzetto” non suonerebbe poi così male (taac).

PUBBLICITÁ
Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ