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L'arte è tutto un suk

Ugo Nespolo

I tradizionali contenitori sono stati disertati. Ora impazzano fiere, biennali e luoghi pubblici. Così è cambiata la nostra percezione dell’esperienza artistica. La storia rivista da Tony Godfrey

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“Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti”. Lapidario Ernst Gombrich, dai bisonti nelle caverne ai decori nelle stazioni del metro esistono solo uomini, gente che s’affanna e mette in scena attività diverse, mutevoli, variegate, sommariamente definite arte. La più famosa Storia dell’Arte scritta negli anni Cinquanta e rimaneggiata sino al 1994 rimane “un modo eccellente per allenare l’occhio a cogliere tutte le caratteristiche dell’opera d’arte”. Un testo con cui bisogna fare i conti, testo fatto di convinzioni ferree e di polemiche aperte e scoperte.

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“Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti”. Lapidario Ernst Gombrich, dai bisonti nelle caverne ai decori nelle stazioni del metro esistono solo uomini, gente che s’affanna e mette in scena attività diverse, mutevoli, variegate, sommariamente definite arte. La più famosa Storia dell’Arte scritta negli anni Cinquanta e rimaneggiata sino al 1994 rimane “un modo eccellente per allenare l’occhio a cogliere tutte le caratteristiche dell’opera d’arte”. Un testo con cui bisogna fare i conti, testo fatto di convinzioni ferree e di polemiche aperte e scoperte.

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“Parlare con intelligenza dell’arte non è difficile, da quando le parole proprie dei critici sono state impiegate in accezioni così diverse da perdere ogni rigore”.

 

Proprio con Gombrich si dilunga a fare i conti Tony Godfrey nel suo nuovo entusiasmante libro edito da Einaudi, “L’Arte contemporanea”, quando da subito si rende conto che Gombrich cercava di dar risposta ai quesiti aperti sulla ricerca della bellezza come “mistero della vita” o sulla presenza dell’armonia e che certo non avrebbe dimostrato il benché minimo interesse nei confronti di opere prive di qualsiasi destrezza manuale, come per esempio “White Flower” (1960) di Agnes Martin, una semplice serie di righe dritte che, secondo l’autrice e una certa critica, tendono a porre quesiti per chiedersi “Cos’è l’arte”.

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Godfrey offre la risposta alla domanda asserendo che essa sta semplicemente nella capacità di poter definire arte tutto ciò che appare diverso, speciale, significativo. In questa Storia dell’arte la presenza di artiste donne è molto nutrita, mentre nel libro di Gombrich si deve attendere l’edizione del 1989 per incontrare la presenza di una donna, Käthe Kollwitz, e si tenta anche di scardinare l’antico pregiudizio per cui l’arte sia frutto esclusivamente di uomini bianchi provenienti dall’America del nord e dall’Europa occidentale per dimostrare il valore e il ruolo di uomini e donne di ogni etnia e di ogni parte del mondo.

Vivendo sempre più in un mondo globalizzato molti artisti non hanno fatto fatica a diventare nomadici, muovendosi di paese, mettendo a confronto le proprie tradizioni con nuovi contesti e dando il via a ibridazioni impensabili.

Forzatamente mettendo tra parentesi le dittatoriali limitazioni prodotte dall’attuale pandemia planetaria di cui ancora non si riescono a definire obblighi, durata e limiti reali, il carosello economico dei viaggi aerei che ben conosciamo, la facilità di essere dovunque in poche ore, le informazioni elettroniche via internet, le pubblicazioni internazionali, generano fonti illimitate d’ispirazione e scelta anche di “antichi maestri” come riferimento e modello nel plasmare la creazione delle proprie opere.

 

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Proprio Gombrich tentò di rispondere a due domande che ancora oggi si rivelano di rilevanza fondamentale: “Perché l’arte è spesso novità?” e “come persegue l’Arte l’espressività?”. Dal momento che oggi non sembra possibile definire l’Arte partendo dalle forme e dai materiali, basti pensare a uno “Scivolo a spirale” di Carsten Höller e a un quadro di Beatriz Milhazes, diversi per forme, materiali, concetti estetici, ci si può limitare a dire che entrambi offrono la possibilità di vivere un’esperienza particolare. A questo punto Godfrey si lancia nel citare non filosofi ma Jürgen Klopp, grande calciatore tedesco e tecnico del Liverpool, che dichiarava quanto poco importanti possano essere trofei e medaglie, mentre risulta essenziale “il ricordo d’esser stati alla partita, di averne fatto parte nell’esperienza”. La stessa esperienza che si può forse avere nell’andar giù dentro lo scivolo di Höller, magari ripensando a quanto scriveva Mark Rothko: “Un quadro non è su un’esperienza: è un’esperienza”.

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A differenza della visione di Gombrich, l’arte ha quasi disertato i tradizionali contenitori per i prodotti artistici, gallerie, musei, edifici sacri per occupare con energia (e alterigia persino) fiere, biennali, luoghi pubblici, sedi che “non hanno soltanto cambiato il modo in cui noi percepiamo l’arte, ma anche il modo in cui gli artisti fanno l’arte”. Godfrey dichiara apertamente di detestare le fiere che, pur considerandole affascinanti o divertenti, rappresentano – per molti – il posto peggiore per ammirare le opere e “costituiscono anche lo spettacolo disgustoso dell’arte ridotta a gingillo di prestigio che solo i super-ricchi possono permettersi di comprare”.

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Il critico statunitense Donald Kuspit pone (a noi in particolare) un quesito al quale non pare davvero facile dare risposta, quello di sapere se l’arte contemporanea vuole rendere il mondo un posto migliore o se è soltanto un divertimento sofisticato.

Le vie d’uscita son strette e poco luminose. Certo non dà gioia né aiuta il raziocinio l’idea che la risposta al quesito di fronte a opere non facilmente leggibili né – in qualche modo – catalogabili ci possa soddisfare e accontentare solo per “aver fatto esperienza, pensarci su, per conto nostro”.

Anche Gombrich sembra essere illuminante in proposito quando dichiara che in arte non si finisce mai d’imparare, ci son sempre nuove cose da scoprire: “Nessuno deve presumere di saperne tutto, perché nessuno lo potrà mai. Nulla è più importante di una mente fresca per godere di queste opere… una mente, soprattutto, non stipata di paroloni altisonanti e di frasi fatte”.

 

Si ripresenta allora il grande quesito contemporaneo, la fatale domanda che c’impegna a sapere se l’arte è oggi soltanto un’informe quantità di merci in vendita, commodity fra le altre, soia, maiali, nichel, o se il suo scopo possa essere davvero quello di cambiare il mondo. Nel capitolo Arte da asta o Arte da Biennale? Godfrey tenta di adoperare dei distinguo molto netti sapendo da subito che la pittura è appannaggio delle molte (troppe davvero) aste, dove l’ottanta percento del venduto è rappresentato da quadri. Le biennali non includono invece quasi mai pittori, preferendo scenografiche installazioni, oggetti vistosi e complessi. A sentire l’artista scozzese Peter Doig parrebbe che la pittura si situi quasi in un ambito fuori dall’arte contemporanea, anche se intanto le sue fragili opere al limite del sentimentale, quasi come cartoline di Natale, con il gioco delle aste si trasformano in poco tempo in investimenti milionari. Infatti nel marzo 2018 Sotheby’s vende una sua opera per più di 14 milioni di sterline dopo ben cinque passaggi in aste con valori modesti a sole cinque cifre. Charles Saatchi nel 2012 la ricompra per trecentomila sterline e cinque anni dopo Sotheby’s New York la rivende per tre milioni e seicentomila dollari. Nel febbraio del 2013 l’opera torna a Londra da Sotheby’s che la vende stavolta per più di 11 milioni di sterline.

 

D’altronde Doig è adorato dai miliardari russi, quelli che, data la scarsità di quadri impressionisti esistenti sul mercato cercano qualcosa di simile. Anche Adrian Ghenie asserisce che “la cronologia dell’arte non esiste” e si finge stupito e quasi irritato del fatto che le sue opere vengano battute alle aste per cifre milionarie. Godfrey può asserire che “le sue opere sono avvincenti perché non si riesce esattamente a capire cosa siano, o dove risieda il loro fascino”. Giovani miliardari da New York a Singapore, da Shanghai a Londra, considerano l’arte beni posizionali, oggetti che ti proiettano nel mondo della gente che conta nell’epoca della disparità estrema di reddito. Godfrey, che vive a Manila, sa bene che questa frenesia verso il contemporaneo è un fenomeno globale. In Indonesia la speculazione imperversa quanto in occidente. Nel 2016 ad Art Jog, grande fiera dell’arte di Yogyakarta, l’artista Hahan ha esposto un enorme dipinto aiutato da una marea di assistenti muniti di computer e stampanti capaci di proiettare e vendere frammenti dell’opera stessa che, dopo essere stati consegnati ai collezionisti, lasciavano intravvedere la scritta tanto discretamente patetica quanto non particolarmente originale: “La vera arte è la sua vendita”.

Se per Doing, Ghenie e Zeng Fanzhi, considerato il più grande artista cinese vivente, Godfrey rivela interesse e una certa considerazione, non si dimostra per nulla convinto dell’opera di molti altri artisti, anche se celebrati e venduti a cifre milionarie nelle varie aste internazionali. Si chiede poi chi decida il valore di artisti ed opere in anni in cui la stampa di settore si è fortemente indebolita fino quasi a scomparire del tutto.

 

Restano pochissimi critici appassionati di pittura e studiosi competenti. Valanghe son le informazioni in internet ma poche invece le analisi ragionate, soppiantate da ridicole e interessati scale di valori stilate da illustri quanto prezzolati sconosciuti. E poi c’è il sistema degli artisti da Biennale come Imran Qureshi, Nilima Sheikh o Geraldine Javier o Sarah Sze o il sudcoreano Haegue Yang o la turca Ayse Erkmen, e tantissimi altri.

Presenze alle Biennali che ricevono fondi dai governi o dagli sponsor ma che comunque hanno un gran bisogno di vendere attraverso i rispettivi galleristi. Godfrey ricorda come alla Biennale di Venezia non si trovino i listini con i prezzi delle opere come un tempo, “ma (la Biennale) rimane un mercato”.

 

Mercato ambiguo anche sul piano dei contenuti, come nel caso dei lavori di Teresa Margolles, con i suoi gesti tanto impressionanti quanto estetizzanti, come la sua presenza alla Biennale di Venezia del 2009 in cui, prendendo sangue proveniente da luoghi di omicidi in Messico e dopo averne inzuppato tessuti, li appende come quadri o bandiere all’interno e all’esterno del Palazzo Rota-Ivancich. Intanto uno dei suoi assistenti lava ogni giorno i pavimenti con secchi d’acqua mista allo stesso sangue. Godfrey sa bene che oltre ad aste e biennali esistono le Fiere, che considera (in particolare Art Basel Miami e Frieze London) eventi mondani “con aree vip, feste esclusive per miliardari e l’idea onnipresente dell’arte come stile di vita”. L’artista americano Eric Fischl pensa – e non è certo l’unico – che le fiere siano solo “celebrazioni per far soldi … puro cinismo”.

 

Il più che documentato libro di Godfrey offre nella parte centrale l’analisi profonda delle vicende artistiche dal 1945 ai giorni nostri, da quello che egli etichetta come Crollo del Modernismo 1945-1979, al Ritorno alla pittura negli anni Ottanta. Non manca certo un attento sguardo alla fotografia (presa sul serio, dice lui) e le sculture da valutare come installazioni o merci? Sino al brillante capitolo che ci porta al 2010 dal visionario titolo: Storytelling ed astrazione.

Il libro s’avvia alla conclusione con un lungo e denso capitolo che analizza il far arte dal 2015 sino ai nostri giorni, un’arte da collocare “nell’epoca del capitalismo della sorveglianza”.

Handoke Eko Saputro, meglio noto come Hahan, è un artista indonesiano che vive a Yogyakarta e che attraverso internet è in contatto con l’arte e gli artisti di tutto il mondo. Ottima cosa certo, anche se ai nostri giorni si è diffuso un “profondo disagio rispetto alle ambizioni e agli effetti di Google, Facebook e altri social media”. Tony Godfrey è sicuro che quelle della comunicazione globale siano illusioni o più cinicamente solo “un modo per estrarre dati personali”. La studiosa Shoshana Zuboff della Harvard Business School sostiene che i social media altro non siano se non una forma di capitalismo ossessionato dal controllo. Parla di seconda modernità, l’era dei jet e del consumismo superata ormai da una terza modernità definita, in qualche modo, come dispositivo migliore per pensare alla nostra situazione con strumenti più adeguati dei vecchi e scontati modernismo e postmodernismo. Godfrey è convinto intanto che l’arte sia lo strumento ideale, un’area importante in cui “gli individui e le comunità possono affermare se stessi, lottare per l’autenticità e rivendicare un certo livello di autonomia”.

 

Oggi molti artisti sparsi nel pianeta si sentono perfettamente a loro agio con le nuove tecnologie e pur considerandosi a volte in lotta contro la mercificazione dell’arte e il suo mercato accettano in silenzio limiti e imposizioni generati dal web. Non temono la scomparsa del genio solitario, adorano essere parte dei pensatori interconnessi. Sono in molti a pensare che si sia alla conclusione dell’idea di artista come creatore assoluto ed individuale, dal momento che l’arte può essere considerata quasi una prassi sociale.

Aggregazioni creative diverse e ruolo dominante e invadente dei curatori, attività che non include certo capacità teoriche o culturali specifiche, ma quasi solo abilità relazionali e manageriali. Il sistema dell’arte è oggi ossessionato anche da fantasiose iperspecializzazioni nel promuovere miriadi di corsi di laurea “mai sentiti prima degli anni Novanta”: Art business, Art management, Art logistics, Art theory. L’autore si chiede se “ non ci siano troppo zoologi e troppo pochi animali nel sistema”.

 

In ogni caso Godfrey è convinto che oggi l’arte sia importante come non mai. Se il mondo è in profonda crisi, ecologia, politica, ideologica e mai come oggi in balia di tragedie sanitarie che sovvertono progetti, consuetudini e scardinano sicurezze, lo considera comunque un luogo per condividere pensieri, “il posto migliore per comprendere il significato dell’essere umano in un mondo che cambia così in fretta e inesorabilmente”. Meraviglioso ottimismo. Vien da ripensare allora a Gombrich: “La storia dell’Arte incomincia ad avere significato soltanto quando notiamo per quale ragione non lo è”.

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