PUBBLICITÁ

Il college proibito

Michele Masneri

Trump vorrebbe spedire a casa gli studenti stranieri. E tutta l’epica dell’università americana rischia il collasso.

PUBBLICITÁ

Harvard e MIT sono imbufaliti, e si capisce: la decisione di Trump di rimandare a casa gli studenti esteri delle università americane causerà tracolli. Verranno meno business colossali non solo di rette: il Michigan per esempio stima che i suoi trentamila studenti esteri fruttino un indotto da 1,2 miliardi l’anno, ma anche girando per qualunque università americana da sempre colpivano gli assalti agli store per far incetta di maglie e cappellini con la scritta “Harvard”, che si trovano peraltro soprattutto sui lungomari italiani, perché la felpa universitaria appassiona molto il turista mediterraneo (mentre l’americano, che ha un rapporto letterale coi marchi, chiederà all’incauto turista di Frascati: che anno? Che facoltà? Non potendo concepire che uno si compri un capetto d’abbigliamento universitario per status symbol).

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Harvard e MIT sono imbufaliti, e si capisce: la decisione di Trump di rimandare a casa gli studenti esteri delle università americane causerà tracolli. Verranno meno business colossali non solo di rette: il Michigan per esempio stima che i suoi trentamila studenti esteri fruttino un indotto da 1,2 miliardi l’anno, ma anche girando per qualunque università americana da sempre colpivano gli assalti agli store per far incetta di maglie e cappellini con la scritta “Harvard”, che si trovano peraltro soprattutto sui lungomari italiani, perché la felpa universitaria appassiona molto il turista mediterraneo (mentre l’americano, che ha un rapporto letterale coi marchi, chiederà all’incauto turista di Frascati: che anno? Che facoltà? Non potendo concepire che uno si compri un capetto d’abbigliamento universitario per status symbol).

PUBBLICITÁ

 

Harvard pensava di farsi tutto il 2021 online, ma senza un centesimo di sconto ai poveri studenti e dopo aver tagliato gli stipendi ai dipendenti

In generale, è chiaro l’intento trumpiano di strizzare l’occhio all’America trucibalda che mai studiò al grande ateneo (variante dell’odio per i “professoroni”, caro ai populisti di tutte le latitudini). E a questa America brutalona senza passaporto farà forse piacere il surplus di accanimento: o forse Trump si vorrà vendicare per le accuse di aver copiato agli esami di ammissione al college (anzi, di aver addirittura mandato un altro al posto suo). Comunque, per gli atenei americani, un disastro, in un momento in cui già ci si chiedeva se davvero le micidiali rette valgono la spesa. Ci sono statistiche: secondo la Brooking Institution, l’investimento nel college ripaga con un ritorno medio del’15 per cento sul capitale.

PUBBLICITÁ

 

Secondo Georgetown se ti laurei guadagnerai l’84 per cento in più rispetto al diploma del liceo. Ma questo in tempi normali. Con quel che succede oggi, signora mia, ne varrà davvero la pena? Con costi anche di centomila dollari l’anno, e devastanti debiti studenteschi che rimarranno sul groppone tutta la vita, ci si interrogava da tempo sul da farsi. E poi magari Trump un po’ ha ragione: se devi stare tutto il tempo chiuso nella tua cameretta ad armeggiare su Zoom, che ci vieni a fare in America? Anche le grandi università, poi, forse, hanno esagerato: Harvard per esempio pensava di farsi tutto il 2021 esclusivamente online, ma senza un centesimo di sconto ai poveri studenti: e dopo aver tagliato invece stipendi a professori e personale vario (insomma, forse pure questi college “ce marciano”).

 

Ma davvero la pandemia e i suoi derivati trasformeranno per sempre l’esperienza dell’augusta università americana? E così con tanti Zoom verranno meno figure leggendarie che hanno formato tanto immaginario visto in mille film e mille romanzi: per prima quella del professore con barba di tre giorni e pantalone di velluto a coste e occhiale di tartaruga, uno che nella vita ne ha fatte di ogni, ma poi ha trovato il suo rifugio nell’ateneo ricoperto di antiche edere (le “Ivy” della famosa “league”). Con varianti: il carismatico che formerà generazioni (“l’Attimo fuggente”); la versione “Irrational man”, come nel film di Woody Allen, che ispira ragazzine al delitto perfetto (però invece a Roma, che impressione quando si andò a iscriversi alla Sapienza e c’erano ancora a terra le sagome del delitto Marta Russo; anche lì teorizzazioni, ma con location molto diverse); oppure ancora la versione professore-scrittore, à la Zuckerman, con l’autore che si apparta in college piccoli ma prestigiosi tra i boschi, perché l’insegnamento da sempre costituisce in America la fonte di sostentamento principale per romanzieri.

 

PUBBLICITÁ

Il college americano è sempre boscoso, il professore abita sempre nella sua dignitosa villetta. Ma volendo immaginare una versione italiana della immaginaria Athena, il piccolo collegio dove Zuckerman insegna: nei boschi dove? A Salerno? All’Università della Tuscia? Per avere una cattedra lì, mettiamo, bisognerà aver fatto dei concorsi indetti appositamente per far passare la nipote del rettore, a sua volta imparentato col locale barone: e giù ricorsi al Tar. E quando mai lo scrivi, il grande romanzo? E Arbasino: “Certo da noi è raro sentire: ah, l’università mi drena tutte le energie intellettuali. La gente morrebbe dal ridere”. Ulteriore variante della letteratura del college è quella sporcacciona: c’è sempre un professore inguaiato per contatti troppo ravvicinati con studentesse, costretto alle dimissioni e alla fuga; nelle “Correzioni” di Franzen, Chip Lambert viene cacciato dopo una vacanza a base di sesso e droga con la studentessa Melissa; lo studio del professore, la porta che si chiude, un meccanismo narrativo che ha dato molto alla narrativa americana.

PUBBLICITÁ

  

Forse per reazione a tutto questo localismo, è chiaro che il massimo status symbol italiano è andare a studiare all’estero

Ma, sempre in Italia, invece, ecco piuttosto baroni lamentarsi che la laureanda o dottoranda non ha capito che le palpate erano segno di affettuosità, non ha sense of humor, dove andremo a finire di questo passo con questo maledetto politicamente corretto. Si finisce sempre lì: non nel grande romanzo italiano ma al Tar o in procura (oltretutto, per il meccanismo di selezione italiano, il palpeggiatore ha sempre almeno cinquant’anni più della palpeggiata. La storia d’amore non può partire. Sono plot che non funzionano).

 

E anche sul politicamente corretto, che differenze: il professor Silk di “La macchia umana” viene accusato di razzismo da parte di due studenti afroamericani, perché avrebbe usato la parola “spook”, all’ennesima assenza, che vuol dir fantasmi, ma “spook” è anche un peggiorativo di nero. Lui si rifiuta di chiedere scusa e viene cacciato (dove andremo a finire, già, già, però il romanzo è del 2000, c’è in ballo l’annosa questione del fuso orario del politically correct all’italiana). Però la macchia, molto umana, del titolo, si riferiva anche a quella lasciata su un certo vestito da Bill Clinton, che nel 1993 si insediava alla Casa Bianca. Monica Lewinsky, studentessa di Psicologia, dalla California si era trasferita a Washington per uno stage: ore di volo.

 

Un anno prima, nel ’92, in Italia nasceva invece il consorzio per l’università a distanza Nettuno, col motto: “Andate all’università, restate a casa!”. L’Italia, paese pur non molto informatizzato, era stranamente all’avanguardia nel settore dell’apprendimento a distanza. E questo spiega molto: se in America il college è il luogo del “coming of age”, del diventare adulti, da noi si tratta soprattutto di azzerare progressivamente la distanza con casa. Più che apprendimento, apprensione (di mamme in finestra): Negli ultimi anni si assiste così a una progressiva “slow foodizzazione” dell’università, che dev’essere a filiera cortissima, con studente allevato a terra.

  

Nel Decreto rilancio appena approvato c’è un salto di qualità: da una parte nascono i “dottorati di ricerca comunali”, da svolgere lontano dalle tentacolari città italiane, e finalmente nei piccoli centri; dall’altra, le regioni si riprendono i “loro ragazzi”. La Sicilia pagherà infatti per il prossimo anno accademico un contributo di 1.200 euro agli studenti che frequentavano università del continente e che decideranno di ritornare invece sull’isola. Lo stesso avverrà anche in Puglia, dove la regione si farà carico delle tasse universitarie di chi rimane. “Ho dato una risposta concreta alle tante sollecitazioni delle famiglie e alle richieste delle università pugliesi – ha detto l’assessore regionale all’istruzione Sebastiano Leo – che avvertono la necessità di agevolare il rientro di studentesse e studenti universitari in Puglia”.

 

Avranno tra l’altro considerato l’impatto esiziale che l’assenza di pugliesi rappresenterà anche a livello identitario per il sistema-Milano? Non si sa. Ma lo studente a chilometri zero è da sempre l’obiettivo dell’università italiana. Mentre in America il college significa lontananza –partenze, imparare a farsi letti, lunghe traversate, anche allegre confraternite maialesche con riti di iniziazione piuttosto grevi – in Italia si tratta soprattutto di non perdere la ribollita di mamma, la bagna cauda di mamma, le orecchiette di mamma (e tesi di laurea triennali faticosamente ottenute in lustri di ripetizioni, con dedica stampata: “Ai miei cari nonni, con cui condivido ogni successo”). Lo studente deve stare vicinissimo, è chiaro, anche per non intralciare i professori, che, loro sì, possono e devono avventurarsi persino in regioni oscure, anche a diverse centinaia di chilometri, e lì fare carriera. Perché l’università italiana è chiaramente un ascensore sociale, ma per il docente. Il romanzo di formazione universitario italiano è sempre e solo dalla parte del professore. Da Leone che diventa presidente della Repubblica a Conte che passa dall’aula universitaria a Palazzo Chigi, ciò che fa sognare è la carriera di un ordinario, non certo la vita da baby pensionato dello studente “fuori corso”, concetto peraltro difficilissimo da spiegare in America.

 

Lo studente a chilometri zero è da sempre l’obiettivo dell’università italiana. Mentre in America il college significa lontananza

Anche qui, il confronto non funziona: in un qualunque “college movie” americano con differenze di classe, i genitori del ricco figlio di papà hanno industrie petrolifere o bancarie, come in “Love Story”, dove in una Harvard livida l’italoamericana povera Ali McGraw se la vede con la famiglia abbientissima di lui, che rifiuta i soldi paterni perché “amore vuol dire non dover mai dire mi dispiace”. In Italia, però, in “l’Amica geniale”, con la Normale di Pisa come una piccola Harvard con tutte le ambizioni e le distinzioni di classe, i genitori di lui, razza padrona, non sono industriali o finanzieri, bensì professori universitari. Non se ne esce.

 

E anche sull’epica del dropout, dell’universitario che abbandona l’ateneo per fondare la sua startup (mito alla base della Silicon Valley), andiamo male. Sempre a Pisa, non avendo Zuckerberg, al massimo abbiamo D’Alema, che molla la Normale per fondare il Pds (anche un film con lui e Mussi tipo gemelli Vinklevoss in “The social network” che pagaiano sull’Arno non si sa se avrebbe qualche successo).

  

Insomma, forse per reazione a tutto questo localismo, è chiaro che il massimo status symbol italiano è andare a studiare all’estero. Da sempre l’università esotica è l’ultimo ritrovato per classi affluenti, con mode anche che cambiano nel tempo: a Londra fino agli anni Ottanta, poi dopo a New York o Los Angeles. Spesso non erano necessariamente menti eccelse quelle che emigravano: per generazioni di bamboccioni la fuga a NYU o a UCLA a studiare Giornalismo o Cinema (raramente Fisica o Ingegneria) era soprattutto un modo per cambiare aria dopo qualche fiasco o guaio scolastico o esistenziale; per far perdere le tracce, con quei “ha frequentato Columbia”, da mettere sul curriculum, senza specificare se per un semestre o una settimana, tornando spesso senza sapere l’inglese, pronti però per mettere le mani sulla fabbrichetta o lo studio notarile o la casa di nonna trasformata in Airbnb (mentre i più disgraziati esibivano titoli di atenei albanesi con l’aquila bicipite).

 

E certo se nel documentario su Michelle Obama “Becoming” si vede tutta l’ossessione per entrare a Princeton, da noi il massimo del pathos era il calabrese yuppie che negli anni Ottanta riusciva a entrare alla “Bocconi”, unica università che fosse riuscita a mettere su un po’ di brand, perché in Italia l’ateneo deve essere gratuito, sotto casa, per tutti (altrimenti è un attentato al diritto di studio). C’era poi l’opzione romana della Luiss, che in maggioranza i futuri studenti pronunciavano “Lewis”.

  

Anche sull’epica del dropout andiamo male. Altro che Zuckerberg. Abbiamo D’Alema che molla la Normale per fondare il Pds

Però, romanzi o film ambientati lì, niente. Niente “college movies” in Italia, ma invece una sterminata cinematografia e letteratura delle elementari e delle medie, al massimo del liceo classico, vero luogo di formazione delle classi dirigenti italiane (i licei classici romani come la Ivy League americana). E del resto gli scrittori italiani insegnano piuttosto alla scuola dell’obbligo: da “Pinocchio” a “Skam”, passando per “Cuore”: e lì, meglio di Conrad, anche noi si è avuto perfino l’epica della frontiera: “Entrò il direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: -Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio Calabria, a più di cinquecento miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto da lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia degli uomini illustri; in una delle più belle terre della nostra patria, dove sono grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo pieno d’ingegno e di coraggio”. E non saranno i boschi del Vermont o le Berkshires di Philip Roth, però anche le grandi foreste calabresi non sono mica male, in fondo, per la letteratura dell’obbligo.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ