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Guerre stellari tra il politicamente corretto e il politicamente scorretto

Maurizio Crippa

La discussione intorno alla Harper's letter ci dice che la censura è una cosa seria e che le recriminazioni reciproche servono a poco

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Dovrebbe essere ormai noto a tutti sulle due sponde dell’Atlantico – se solo si leggessero i libri e non soltanto i titoli, come ben scrive Guido Vitiello – che Voltaire era un feroce antisemita e voleva schiacciare come infami i suoi nemici. Continuare distrattamente a farne un simbolo astratto di equanime tolleranza non è un’operazione innocente. Del resto anche il Primo emendamento, nel paese che cercava un’altra tolleranza, venne alla luce dopo il parto di una guerra civile. Rinunciare a schiacciare i propri infami non è mai un pranzo di gala.

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Dovrebbe essere ormai noto a tutti sulle due sponde dell’Atlantico – se solo si leggessero i libri e non soltanto i titoli, come ben scrive Guido Vitiello – che Voltaire era un feroce antisemita e voleva schiacciare come infami i suoi nemici. Continuare distrattamente a farne un simbolo astratto di equanime tolleranza non è un’operazione innocente. Del resto anche il Primo emendamento, nel paese che cercava un’altra tolleranza, venne alla luce dopo il parto di una guerra civile. Rinunciare a schiacciare i propri infami non è mai un pranzo di gala.

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E’ in corso negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone (noi prediluviani siamo tuttora immuni dai virus etici che dilaniano la postmodernità) una lotta, più pari che impari, tra il politicamente corretto e il politicamente scorretto. Oggi, mentre gli scorretti governano e danno efficacia di legge o di fuorilegge alle loro parole, è però evidente che molto in vantaggio, almeno sul fronte delle parole, sono gli altri: quelli che vogliono schiacciare gli infami scorretti. E la loro tracotanza sta abbattendo i limiti dell’intelligenza e dell’opportunità. Ne nasce la rivolta di chi denuncia la scempio della cancel culture.

 

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Visti certi eccessi, non si può non essere dalla parte dei firmatari della Harper’s letter, o di Ian Buruma. Non fosse per il “pensiero improvviso”, per citare Sinjavskij, che buona parte dei firmatari anti dittatura censoria di oggi un anno fa erano quelli che volevano chiudere internet, diceva cose pericolose o che non piacevano. E fossero stati italiani, ma il Fato li ha protetti, avrebbero volentieri tappato la bocca alla famosa moratoria sull’aborto (così per dire, eh). Perché non tutte le culture war valgono lo stesso. Voltaire giocato a squadre è un pessimo sport, dal risultato prevedibile. C’è sempre un filisteo a far da raccattapalle.

  

D’altra parte la censura è un attrezzo poco maneggevole, chiunque sia a farla tornare di moda. Un bel libro dello storico Robert Darnton sull’argomento, di cui il Foglio scrisse tempo fa, aiuta a capire che la censura è in verità diverse cose: può essere quella violenta e scellerata della Ddr e di tutti i regimi totalitari, ma era una forma di controllo preventivo di legittimità nelle colonie dell’Impero britannico. E nell’Ancien régime fu addirittura un saggio sistema di compromessi e contrappesi: fu il capo dei censori del re a salvare dalla distruzione gli scritti di Diderot per l’Encyclopédie. In ogni caso, è sempre qualcosa che riguarda il prevalere tra le élite e un potere non solo politico conteso.

 

Il processo al poeta dissidente Andrej Siniavskij (1966) fu esemplare e incredibile perché, andando al sodo, uno scrittore fu condannato non per aver scritto cose contrarie al regime, ma per non aver detto niente a suo favore. Non si poteva, ma lui prese la parola, e pagò la galera. Senza badare al posto in accademia, al contratto editoriale, o agli insulti. La censura è questione che appartiene al potere, alle persone che vogliano essere libere rimane la possibilità di prendere la parola. Francamente – ma qui parlo a titolo più personale del solito – non mi importa nulla di quel che pensa Rowling. Però continui a dirlo, ma anziché lamentarsi dell’hate speech dovrebbe dire “mi piace che i sassi dell’ingiuria / mi volino addosso come grandine / di ruttante bufera”, come nel verso di un altro poeta russo, Sergej Esenin. Che poi si suicidò, forse anche per questo. Sinjavskij era allora irregolare e scorretto e per questo fu condannato da un totalitarismo censorio. Sarebbe irregolare e scorretto anche oggi (provate a leggerlo) e verrebbe condannato da un altro potere censorio. Per quanto ideologicamente diverso e contrario. Ha insegnato che non si bada alle condizioni garantite per prendere la parola, la si prende e si paga.

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Lo scontro in corso nel mondo anglosassone è “una satira pungente di recriminazioni reciproche tra élite”, riporta Giulio Meotti dal Wall Street Journal. Una guerra per stabilire perimetri, per chi debba decidere la dicibilità delle cose. Ognuno tenendo nei pensieri segreti, come Pulcinella, il nome del prossimo infame da schiacciare. La si pagherà sempre, e gli spiriti liberi non dovrebbero farne una questione di prezzo o di regolamenti. Quanto alla cancel war: quando ognuno non è soltanto dalla parte del torto, meglio cercare l’appeasement, magnifica parola.

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