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Fare zoom su un librone del ’300

Maurizio Crippa

Nasce la Estense Digital Library e le biblioteche antiche (ma pure le moderne) non saranno più come prima

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Madame Marie Pellechet è una figura oggi nota soltanto agli studiosi di libri antichi e ai bibliotecari che gelosi li custodiscono, ma la sua storia è di quelle che illuminano i passaggi d’epoca, da una Galassia Gutenberg all’altra. Nata a Parigi nel 1840, è stata un’autentica pioniera nello studio degli incunaboli, quei “libri in fasce” stampati quando la macchina di stampa era appena nata, prima dell’anno 1500. Fu lei a dar vita al primo catalogo degli incunaboli francesi. Ma pioniera anche dei nuovi mezzi di riproduzione e studio. Era infatti provetta fotografa, a quei tempi, e visitò nella sua non lunga vita (morì nel 1900) molte grandi biblioteche depositarie di fondi antichi, iniziando dalla Francia e poi in Italia. Sfidando anche i pregiudizi sociali e scientifici dell’epoca. Fu la prima donna a essere ammessa alla Biblioteca Vaticana, grazie a uno speciale interessamento della segreteria di Stato, e si racconta che le fu approntato uno studiolo, un gazebo riservato, per lavorare senza incrociare monsignori. Distanziamento ante litteram, non peggio delle attuali misure di sanificazione che rendono quasi impraticabile il prestito dei volumi e le biblioteche stesse, dove peraltro la libertà di scattare foto alle pagine con lo smartphone è conquista legale piuttosto recente, in Italia. Inoltre voleva fotografare i libri antichi, i frontespizi, per poi catalogarli con rigore e renderli fruibili “da remoto”, diremmo adesso, e invitava i conservatori a dotarsi a loro volta di questi nuovi strumenti tecnologici. Non tutti erano convinti, a Genova le fu interdetto l’ingresso.

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Madame Marie Pellechet è una figura oggi nota soltanto agli studiosi di libri antichi e ai bibliotecari che gelosi li custodiscono, ma la sua storia è di quelle che illuminano i passaggi d’epoca, da una Galassia Gutenberg all’altra. Nata a Parigi nel 1840, è stata un’autentica pioniera nello studio degli incunaboli, quei “libri in fasce” stampati quando la macchina di stampa era appena nata, prima dell’anno 1500. Fu lei a dar vita al primo catalogo degli incunaboli francesi. Ma pioniera anche dei nuovi mezzi di riproduzione e studio. Era infatti provetta fotografa, a quei tempi, e visitò nella sua non lunga vita (morì nel 1900) molte grandi biblioteche depositarie di fondi antichi, iniziando dalla Francia e poi in Italia. Sfidando anche i pregiudizi sociali e scientifici dell’epoca. Fu la prima donna a essere ammessa alla Biblioteca Vaticana, grazie a uno speciale interessamento della segreteria di Stato, e si racconta che le fu approntato uno studiolo, un gazebo riservato, per lavorare senza incrociare monsignori. Distanziamento ante litteram, non peggio delle attuali misure di sanificazione che rendono quasi impraticabile il prestito dei volumi e le biblioteche stesse, dove peraltro la libertà di scattare foto alle pagine con lo smartphone è conquista legale piuttosto recente, in Italia. Inoltre voleva fotografare i libri antichi, i frontespizi, per poi catalogarli con rigore e renderli fruibili “da remoto”, diremmo adesso, e invitava i conservatori a dotarsi a loro volta di questi nuovi strumenti tecnologici. Non tutti erano convinti, a Genova le fu interdetto l’ingresso.

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La Biblioteca Estense Universitaria è la prima in Italia ad aver digitalizzato il suo patrimonio. Al passo con Oxford e Parigi

Passati più di cento anni, e l’improvvisa chiusura di musei e biblioteche e persino di grandi università ha riproposto con urgenza il tema di come sfruttare la tecnologia, ora digitale, per permettere l’accesso a opere e libri antichi. Questione di facilitare lo studio, e di avere per il futuro maggiori modi di fruibilità. Sono passati più di cento anni, e troviamo un’altra donna a capo di un progetto di valorizzazione del patrimonio librario di una grande biblioteca. Si chiama Martina Bagnoli ed è direttore (una dei bravi “direttori di Franceschini”) delle Gallerie Estensi, museo di interesse nazionale diffuso tra Modena, Ferrara e Sassuolo, di cui fa parte anche la Biblioteca Estense Universitaria. E’ in un bel palazzo di Modena, ma ora non più solo lì. Perché ora è nata l’Estense Digital Library, prima piattaforma italiana a offrire la possibilità di accedere online a oltre 700 mila pagine di manoscritti custoditi nella Biblioteca (ma ce n’est qu’un début, si sta lavorando per digitalizzare anche i manoscritti e i libri illustrati dell’Antico Fondo Estense. Finanziandosi in fundraising fino a raccogliere i 700 mila euro necessari).

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“Sphaerae coelestis et planetarum descriptio”, 1470 ca., pergamena 

 

In pratica, con un lavoro durato oltre tre anni, la Biblioteca Estense Universitaria è la prima in Italia a rendere disponibile non solo il catalogo o la descrizione dei volumi, ma i libri stessi in altissima definizione, su piattaforme aperte, mettendosi al livello di altre importanti biblioteche mondiali come la Oxford Bodleian Library o la Bibliothèque Nationale de France col suo mastodontico progetto Gallica. Anche la Biblioteca Vaticana, per citare un altro sancta sanctorum del libro antico, ha iniziato da anni la digitalizzazione dei suoi 80 mila manoscritti: ma per l’appunto siamo all’estero. Il Mibact ha iniziato da dieci anni, in partnership con Google Books, il lavoro di digitalizzazione dei volumi delle Biblioteche nazionali di Roma e Firenze, ma si tratta di un progetto diverso per tipologia, finalità e piattaforme. Prima dei dettagli, va detto che la Estense Digital Library è nato con un finanziamento della Fondazione di Modena e con il contributo realizzativo del Centro di ricerca sulle Digital Humanities dell’Università di Modena e Reggio Emilia e di AGO Modena Fabbriche Culturali. Con loro, hanno lavorato anche numerose aziende. Aggiungendo il fundraising che può usufruire dell’Art bonus, un bel pacchetto di mischia pubblico-privato che nel settore culturale italiano suona sempre, purtroppo, come una novità.

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L’aspetto più innovativo di questo portale aperto è che si basa sullo standard International Image Interoperability Framework (IIIF) uno dei più importanti per la condivisione in rete di documenti digitalizzati, “che aiuta archivi, biblioteche e musei a sfruttare al meglio le proprie collezioni digitalizzate con zoom profondi, possibilità di annotazione dei

Lo standard IIIF è uno dei più̀ importanti per la condivisione di documenti digitalizzati. Le immagini sono in altissima definizione

documenti e molto altro”. Immagini ad altissima definizione che è poi possibile “annotare”, creando finestre di appunti, di rimandi, di collegamenti e raffronti con altre immagini e anche diffondere in modo “leggero”. Il lavoro che un filologo o uno studente faceva in anni, a portata di schermo. Sempre in altissima definizione. Si può zoomare a piacimento e aggiungere una annotazione o parole chiave che che resteranno a disposizione privata, ma potranno anche essere condivise pubblicamente. Fondamentale è la possibilità di avere a disposizione i metadati di ogni documento, aspetto su cui in precedenza alcune metodologie di digitalizzazione erano incomplete. Si possono creare anche delle “storie”, che significa ad esempio anche percorsi didattici utilizzabili dagli insegnanti, ora che dopo tre mesi di lockdown sono diventati esperti di didattica a distanza. Funzioni che ovviamente interessano di più l’area dello studio che il casuale viaggiatore digitale curioso. Ma in quest’epoca semi-reclusa entrare in una biblioteca antica può essere un percorso ricco di piacevoli sorprese.

 

La Biblioteca Estense Universitaria è infatti uno di quei patrimoni di beni culturali di cui l’Italia è piena, spesso a sua insaputa, e attraggono poco l’attenzione non specialistica. Ma è allo stesso modo un patrimonio che merita di essere conosciuto. “Le parole chiave di questa piattaforma sono accessibilità, condivisione e trasparenza”, spiega Martina Bagnoli, “una biblioteca in cui tutti potranno curiosare direttamente online con una semplice ricerca per parola chiave”. Certo, riconosce il direttore, “è chiaro che gli utenti più assidui e affezionati saranno gli studiosi, ma è importante non escludere nessuno. L’obiettivo del progetto è quello di invitare tutti gli interessati a studiare le nostre collezioni”. Le quali sono preziose per diversi motivi che affondano nella storia. L’Estense è una biblioteca di origine dinastica, raccoglie una collezione libraria le cui prime tracce risalgono al Trecento. Divenne poi un’importante biblioteca umanistica, nel Rinascimento il raffinato e opulento collezionismo dei duchi d’Este portò manoscritti di pregio e fondamentali edizioni “moderne” a stampa. La Biblioteca seguì poi la dinastia da Ferrara a Modena, nel 1598. Tra i tanti pezzi unici, c’è ad esempio la celebre “Mappa del cantino”, che fa parte del Mappario: una pergamena che fu acquisita da Ercole I d’Este nel 1502, considerata una delle prime cartografie a rappresentare le coste del Nuovo Mondo scoperto appena dieci anni prima. Oltre a manoscritti di assoluto pregio come la “Biblia Latina” di Borso d’Este, realizzata in ben sei anni di lavoro tra il 1455 e il 1461 e splendidamente miniata, c’è ad esempio l’Archivio Muratori, che raccoglie l’opera del grande iniziatore della storiografia italiana su base documentaria, modenese per l’appunto (era nato a Vignola) e finora non ancora compiutamente studiato.

 

 

“Mappa del cantino”, realizzata per Ercole I d’Este nel 1502, fra le prime a rappresentare le coste del Nuovo mondo

 

Viviamo un periodo di provvisorie chiusure e di inevitabili distanziamenti nel mondo globale. Ma non è soltanto questa “funzione di supplenza” ciò che che le tecnologie digitali applicate alla cultura possono fare. Quando usciremo dalle clausure non saremo cambiati né in meglio né in peggio: ma avremo a disposizione più strumenti e più capacità di utilizzarli. Vale per lo smart working, vale per l’e-learning, vale per la mole sterminata di accessi che molte istituzioni culturali, musei, università, biblioteche, archivi storici si sono affrettati a mettere a disposizione. Sarà una esperienza diversa visitare un museo (sarà addirittura “esperienziale” prepararsi e documentarsi). Ma sarà diversa anche la possibilità di lavorare come studiosi o studenti. Investire in tutto questo, in una istituzione pubblica che dipende dal Mibact, in un paese in cui tradizionalmente i soldi per le biblioteche scarseggiano, è una possibilità interessante. Poi dipende da quel che si farà, con questa mole Terabyte a portata di mouse o di smartphone.

 

Il giusto equilibrio tra biblioteche antiche che non devono diventare musei e biblioteche digitali che devono essere luoghi di sapere

In una bella mostra di qualche anno fa alle Gallerie dell’Accademia di Venezia dedicata ad Aldo Manuzio, il principe degli stampatori-editori del Rinascimento, l’uomo che ha creato il concetto moderno di libro e perfino il libro “tascabile”, erano esposti alcuni ritratti di nobiluomini e nobildonne dell’epoca che avevano preso il vezzo, assai à la page, di farsi immortalare con un libro di Aldo tra le mani. Un volume finalmente trasportabile, il libro che usciva dalle biblioteche e diveniva compagno di viaggio, di raccoglimento solitario. Era l’inizio di una nuova tecnologia che avrebbe cambiato per sempre il nostro rapporto con la lettura. Nel catalogo della mostra i curatori scrivevano, con similitudine ardita ma azzeccata, che Aldo era stato lo Steve Jobs del suo tempo: cinquecento anni prima dell’iPhone la cultura e le informazioni avevano iniziato a essere mobili. Curiosamente, in questi mesi in cui sono stati i device digitali a tenerci collegati al mondo, abbiamo assistito a un’altra dilagante moda: per vezzo o per necessità, chiunque dovesse collegarsi in una videochiamata, in uno Skype o su Zoom si posizionava con una libreria alle spalle. Segno di distinzione sociale, o anche solo di casa in ordine. Possessori di libri, come i nobili del Cinquecento, costretti a dare testimonianza, come fosse un certificato digitale, del proprio status culturale. Non c’è molto da fare: il nostro rapporto con i libri, nell’èra digitale, resta problematico e un po’ primitivo.

 

Il problema dunque, ora che abbiamo a portata di mouse intere biblioteche di Babele, è come utilizzarle. Come scrive il professor Edoardo Barbieri, docente di Storia de libro e Biblioteconomia in Università Cattolica, spesso di affrontano due logiche diverse: “Da un lato c’è chi punta alla musealizzazione delle biblioteche”, per cui “ci si immagina la biblioteca come un semplice scrigno di tesori, mostrati magari a rotazione a folle di pubblico (?), possibilmente pagante”. Dall’altro lato c’è invece “chi crede che sia il web stesso a generare cultura”. Barbieri non è un topo da biblioteca old style, anzi attraverso il Centro di ricerca europeo libro, editoria, biblioteca della Cattolica ha di recente curato la catalogazione digitale del fondo di incunaboli della Braidense di Milano, e da anni manda avanti un progetto di catalogazione digitale dell’immenso patrimonio della Biblioteca della Custodia di Terra Santa a Gerusalemme. Il punto è che questi progetti di terza generazione digitale applicati alle biblioteche diventino effettivi strumenti di lavoro e non mere duplicazioni delle biblioteche fisiche (le mappe come duplicazione in scala 1:1 del mondo, un’antica ossessione di Borges). Perché nelle biblioteche dovremo continuare a poter entrare. L’Estense Digital Library intende andare, giustamente, in questa direzione. Poi, perché no, ci si può ben fare anche un giro da turisti. Madame Pellechet forse arriccerebbe il naso. Ma times they are a-changin’.

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