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L’Etiopia di Flaiano

Gaia Manzini

Il diario dell’esperienza in Africa durante la violenta colonia fascista. Una critica sofferta e tragicomica che non rinunciò mai alla leggerezza

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Ma quanto mi piace Ennio Flaiano, la sua irregolarità, la Dolce Vita che torna in mente come un retro pensiero, insieme a e ai Vitelloni (la parola che lui aveva suggerito a Fellini ricordandosi di come venivano chiamati a Pescara i giovani sfaccendati). E poi ancora il suo marziano a Roma, l’ironia dei suoi pezzi giornalistici, il moralismo, lui che in un articolo bacchettava tutti, Zavattini compreso, per aver boicottato nel 1972 la mostra veneziana su Chaplin. Mi piace la sua sfrontatezza: lo scrittore che si alza da un bar di Via Veneto insegue una bella ragazza, forse una modella, la ferma e le dice La prego, mangi, lo faccia per me!, o almeno così racconta chi gli è stato amico. Ma quello che mi ha sempre attratto in modo magnetico è il suo ufficiale sperduto in Etiopia; il suo Tempo di uccidere, unico romanzo che ha pubblicato, vincendo in questi stessi mesi del 1947 la prima edizione del Premio Strega. Un romanzo che al netto di tutte le letture critiche stratificate negli anni, sembra un sogno, o un incubo. Inizia con un mal di denti e con la meraviglia di essere vivo, immerso in un’Africa surreale e in un caldo che dà alle piante l’aspetto di animali impagliati. L’ufficiale vagabonda, tenta di raggiungere l’altopiano in cerca di qualcuno che lo curi: ma poi si perde, e perdendosi fa l’incontro che cambierà per sempre la sua vita. Tra gli alberi c’è una donna che si sta lavando. La vede che alza le mani lentamente con sensualità inconsapevole. Si porta l’acqua sul seno e la lascia cadere, sembra presa da un gioco. Ripete il gesto più e più volte con melanconica monotonia, e il soldato è lì che la osserva incantato. La donna si strofina come una massaia, come se il corpo non fosse suo. Per lavarsi i capelli li ha raccolti in un turbante bianco. Questo è il suo sortilegio: la donna riesce a restare vestita con un solo fazzoletto. E’ una scena bellissima. La ragazza si lava con il sapone dell’esercito, ma sembra non sapere niente della sua avvenenza, e come potrebbe? L’unico specchio a sua disposizione è quella pozza d’acqua, uno specchio da niente che rimanda un’immagine sconnessa. Lui le chiede indicazioni per l’altipiano e lei gli risponde, ma a quel punto l’ufficiale non è più interessato a seguire la sua strada. E’ interessato alla purezza degli occhi di quella donna. E l’incontro sarà fatale, perché la purezza per chi l’innocenza non ce l’ha più è come una malattia. E come potrebbe essere innocente chi partecipa a quella guerra colonialista e razzista voluta dal fascismo?

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Quello che mi ha sempre attratto in modo magnetico è il suo ufficiale sperduto in Etiopia, nel suo unico romanzo “Tempo di uccidere”

Ma quanto mi piace Ennio Flaiano, la sua irregolarità, la Dolce Vita che torna in mente come un retro pensiero, insieme a e ai Vitelloni (la parola che lui aveva suggerito a Fellini ricordandosi di come venivano chiamati a Pescara i giovani sfaccendati). E poi ancora il suo marziano a Roma, l’ironia dei suoi pezzi giornalistici, il moralismo, lui che in un articolo bacchettava tutti, Zavattini compreso, per aver boicottato nel 1972 la mostra veneziana su Chaplin. Mi piace la sua sfrontatezza: lo scrittore che si alza da un bar di Via Veneto insegue una bella ragazza, forse una modella, la ferma e le dice La prego, mangi, lo faccia per me!, o almeno così racconta chi gli è stato amico. Ma quello che mi ha sempre attratto in modo magnetico è il suo ufficiale sperduto in Etiopia; il suo Tempo di uccidere, unico romanzo che ha pubblicato, vincendo in questi stessi mesi del 1947 la prima edizione del Premio Strega. Un romanzo che al netto di tutte le letture critiche stratificate negli anni, sembra un sogno, o un incubo. Inizia con un mal di denti e con la meraviglia di essere vivo, immerso in un’Africa surreale e in un caldo che dà alle piante l’aspetto di animali impagliati. L’ufficiale vagabonda, tenta di raggiungere l’altopiano in cerca di qualcuno che lo curi: ma poi si perde, e perdendosi fa l’incontro che cambierà per sempre la sua vita. Tra gli alberi c’è una donna che si sta lavando. La vede che alza le mani lentamente con sensualità inconsapevole. Si porta l’acqua sul seno e la lascia cadere, sembra presa da un gioco. Ripete il gesto più e più volte con melanconica monotonia, e il soldato è lì che la osserva incantato. La donna si strofina come una massaia, come se il corpo non fosse suo. Per lavarsi i capelli li ha raccolti in un turbante bianco. Questo è il suo sortilegio: la donna riesce a restare vestita con un solo fazzoletto. E’ una scena bellissima. La ragazza si lava con il sapone dell’esercito, ma sembra non sapere niente della sua avvenenza, e come potrebbe? L’unico specchio a sua disposizione è quella pozza d’acqua, uno specchio da niente che rimanda un’immagine sconnessa. Lui le chiede indicazioni per l’altipiano e lei gli risponde, ma a quel punto l’ufficiale non è più interessato a seguire la sua strada. E’ interessato alla purezza degli occhi di quella donna. E l’incontro sarà fatale, perché la purezza per chi l’innocenza non ce l’ha più è come una malattia. E come potrebbe essere innocente chi partecipa a quella guerra colonialista e razzista voluta dal fascismo?

 

L’ufficiale potrebbe andarsene, lui il conquistatore, ma rimane ancorato lì; fa l’amore con questa donna bellissima, dorme, ride, ne è incantato, non la lascerebbe più. Ed è così che procede il libro, in un susseguirsi di situazioni paradossali. Rimane, l’ufficiale, ed è come se avesse amato quella donna da duemila anni. La guarda assonnata, lei proprio come l’Africa ha “il sonno dei grandi imperi mancati che non sorgeranno”. Stanno uniti per un po’: il tempo indivisibile come un sentimento. Ma a un certo punto succede l’irreparabile. Nel tentativo di sventare un agguato, vero o presunto, l’ufficiale si alza, punta il suo fucile nella boscaglia, cerca di cacciare un nemico o una bestia, ma quando torna di fianco alla sua Miriam la scopre ferita, la pallottola è stata deviata da una pietra e l’ha colpita al ventre. C’è sangue dappertutto. Quasi una scena da tragedia scespiriana. La donna docile e agonizzante non capisce cosa sia successo; l’ufficiale è atterrito, non sa che fare, ha paura, ha orrore di sé, è affranto per quel suo amore appena nato. Vorrebbe lasciarla lì, ma torna indietro e con un ultimo atto di pietà la finisce, le spara alla testa attraverso il turbante bianco. Poi la seppellisce nella boscaglia, scegliendo le pietre una a una. Infine se ne andrà, senza andarsene mai. Sarà ancorato per sempre al senso di colpa e alla responsabilità morale (in contrasto con la collettiva rimozione delle responsabilità e dei crimini commessi in Africa già in atto negli anni Quaranta); ancorato alla possibilità di amore che non tornerà. “Addio donna”.

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“Ogni guerra dovrebbe essere preparata melodicamente. Caporetto fu la conseguenza logica delle cattive canzoni del tempo”

“Ogni guerra dovrebbe essere preparata melodicamente. Caporetto fu la conseguenza logica delle cattive canzoni del tempo. Il morale di un soldato che cantava: ‘Come un sogno d’or’ non poteva essere che basso. Tutte le canzoni italiane dell’epoca erano piene di pessimismo e di sfiducia. Le parole mai più, svanito nel cuor, aggravano la situazione come altrettante sconfitte. (…) E in questa guerra? Ho l’impressione che ‘Faccetta nera’ abbia molto contribuito a riempire gli ospedali di ‘feriti in amore’”. Così scriveva Flaiano in Aethiopia, il diario della sua esperienza militare ripubblicato da Adelphi nella collana Microgrammi (e già appendice del romanzo nell’edizione Bur del 2000). Così scriveva con un’ironia che nel libro si contrae in un senso di terribile straniamento. Alla fine del 1935 Ennio Flaiano era partito dall’Italia, col grado di sottotenente del Genio, per la campagna di Etiopia. Poco dopo lo sbarco in Africa, Flaiano aveva cominciato a tenere degli appunti sulla sua avventura militare, usando quello stile ironico e disincantato che aveva già utilizzato nelle prime collaborazioni giornalistiche. “Probabilmente sapeva poco dell’Etiopia”, scrive Anna Longoni che ha curato l’edizione di Aethiopia “e poche domande si era fatto sulla politica coloniale fascista: ma non gli ci volle molto per capire l’insensatezza di quella impresa, e per imparare il rispetto dovuto a un popolo destinato, nell’incontro con il conquistatore, a una inevitabile sconfitta e, soprattutto, alla perdita della propria identità”.

 

Sceglie un quaderno, Flaiano, simile a quelli che spesso si trovano nelle mani dei suoi personaggi; incolla sulla copertina una mappa militare, vi scrive in bella grafia il toponimo latino Aethiopia, aggiunge il sottotitolo Appunti per una canzonetta, e inizia a registrare quanto sta vivendo.

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Nell’inverno del 1946 Leo Longanesi e Flaiano passeggiavano insieme, quando l’editore gli chiese di scrivergli un romanzo per i primi di marzo, Flaiano scoppiò a ridere, ma Longanesi faceva sul serio. I suoi occhi vivi e lucidi, sempre pieni di simpatia e di indignazione, lo fissavano con sorpresa. Flaiano gli disse che il suo libro sarebbe stata una storia assolutamente fantastica, tanto fantastica che non la immaginava in Italia, ma in Africa, nell’Africa di Erodoto e Solino. Allora Longanesi disse: “Se comincia subito le do un anticipo”. Le pagine di Aethiopia, quel diario ironico e feroce contro gli italiani, divennero una fonte per il romanzo e la sua atmosfera disassata e sghemba. Flaiano lo chiamò Il coccodrillo, ma l’editore gli cambiò titolo. Nel 1947, Tempo di uccidere partecipava e vinceva la prima edizione del Premio Strega, mentre Moravia ritirava La romana prima delle votazioni.

   

Per me che lo rileggo, quel primo capitolo – il soldato, la donna, il loro breve idillio – è la storia di un amore impossibile. Quando i soldati hanno il sospetto che nell’altipiano siano custodite pagliuzze d’oro, l’ufficiale va a sedersi sulla tomba della donna per impedire che gli altri scavino in quel punto. Lo fa per nascondere il suo delitto, lo fa perché il suo oro è lì nella terra, e lì deve rimanere inviolato.

  

Nel diario Aethiopia si legge del soldato T***. Chi è? E’ la vittima del conflitto italo-etiope, scrive Flaiano. Ha una moglie avvenente, una buona posizione sociale, un cuore di fanciullo incapace di far male ad alcuno. E’ grasso, sorridente. Dopo tre marce faticose per colpa di disturbi emorroidali acuti, il soldato dorme una notte all’addiaccio. La mattina seguente Flaiano lo trova semicongelato, pallido. Ha una lettera di suo fratello in mano. La carta porta l’intestazione dell’Hotel Royal di Fiume. C’è scritto: “T’invidio! Tu che vivi l’odierna epopea!”. C’è quest’ironia dello sguardo, questo occhio impietoso che mette a fuoco le miserie umane, la retorica guerrafondaia, le illusioni. E’ il soldato T*** il protagonista di Tempo di uccidere? E’ lui l’uomo inetto e svilito, totalmente spaesato?

  

Nella satira del suo Diario c’è il riscatto, la terapia per sopportare la realtà del fascismo, per andare oltre. Una scena ad Axum

L’antifascismo di Flaiano era sofferto e tragicomico. Nella satira c’era il riscatto, la terapia per sopportare la realtà del fascismo, per andare oltre. Nel diario Flaiano annota una piccola scena avvenuta ad Axum. Ci sono due donne malate, dei bambini che giocano a campana, un vecchio che mostra i cannoni egiziani presi da Ras Alula. In Tempo di uccidere il protagonista vede due donne, gli ricordano Miriam, indossano un turbante bianco e le loro mani sono divorate da piaghe orrende, sono due lebbrose, due intoccabili. Il protagonista tornerà alla capanna del vecchio Johannes, aspettando di morire. E’ convinto di aver contratto la lebbra da Miriam, solo ora capisce che era malata; per quello indossava il turbante. E allora l’Africa diventa un’ossessione che lo divora. Ha il dubbio di essere malato, forse la convinzione, e quel sospetto si trasforma in un grumo che contrae la sua esistenza. Vorrebbe andarsene ma non ci riesce, forse non vuole, aspetta la morte. Non si tratta più della lebbra, è un altro tipo di male quello che si porta dietro, è più sottile, più invincibile. E’ la sofferenza che ci segue quando scopriamo ciò che siamo veramente. Vili, piccoli, spaesati come questo militare in Africa. Immersi in un’avventura senza senso di cui siamo responsabili in prima persona. L’Africa non è l’Africa, potrebbero essere le Alpi o l’Amazzonia. E’ lontano dal neorealismo, assomiglia a Camus e a Conrad. E’ un messa in scena, è teatro, con la boscaglia che sembra fatta di cartapesta; con il camaleonte che, la sigaretta in bocca, se ne va per la sua strada. L’Africa è il palcoscenico dell’angoscia esistenziale di un uomo che non sa più cosa deve fare: combattere o andarsene. Non sa uccidere, non lo vuole fare, anche se lo fa suo malgrado. Non è un conquistatore ma un conquistato, preda dei suoi stessi sensi di colpa.

  

Però l’Africa, nello sguardo prismatico di Flaiano, è stata anche – appunto – tragicomica. La lunga autocolonna dell’artiglieria, in cui sul primo pezzo si leggeva Verso la gloria, sul secondo Sempre ed Ovunque e poi Ruggo, Rombo, Rompo, Difendo la Patria, Indomabile: tanto per sfogare la solita retorica. Sull’ultimo pezzo compariva solo una scritta: Ginetta. E poi ancora le salmerie di un battaglione che perduto il collegamento entra in Macallè. I cucinieri con la serenità di chi ha a che fare sempre con i cibi, per nulla spaventati preparano il rancio. Le truppe arrivano e irrompono alla baionetta. Gli operatori Luce che seguivano “arditamente” l’attacco si trovano il film guastato da una panoramica gastronomica.

  

C’è la magia della leggerezza, come quando scendeva in via Veneto e incrociava Brancati in bicicletta e Soldati dal barbiere

Questo diario è l’incrocio tra ironia e tragicità. E’ il trasformismo di Flaiano. Pare che gli etiopi dicessero sempre “Italiani baciare bene, noi baciare male”. “Questa frase detta da un tigrino”, scrive Flaiano, “potrebbe far sorgere dei sospetti sulla normalità delle sue attività sessuali. Eppure molti ex nemici me l’hanno ripetuta. Spiegare il dubbio è facile. All’attacco i nostri fanti partivano col fucile nella mano sinistra e una bomba nella destra. Per liberare il percussore della bomba dovevano togliere la linguetta coi denti, dopo di che la bomba, lanciata, scoppiava. Gli etiopici riuscirono a catturare diverse casse di bombe all’83° Regg. Fanteria, bombe che usarono contro di noi, nell’azione dello Scirè. Soltanto dimenticavano di togliere la linguetta limitandosi a ‘baciarle’ (cosa che avevano visto fare ai nostri) col risultato che le bombe rimanevano inesplose e venivano subito usate dagli italiani. Questi le facevano scoppiare ‘baciandole bene’”.

  

C’è sempre in Flaiano la magia della leggerezza; come quando scendeva in via Veneto dopo aver attraversato villa Borghese, incrociava Brancati in bicicletta e Soldati dal barbiere. D’estate si lamentava perché non era più una strada ma una spiaggia, con gli ombrelloni ovunque, le automobili come gondole; le conversazioni balneari e quelle gastrosessuali. Quando entrava alla libreria Rossetti, prendeva un volume di Proust da venti lire e diceva al proprietario di aprire un conto a suo nome di almeno cento lire che prima o poi avrebbe saldato. Quella leggerezza la troviamo anche in Etiopia, seppur in una forma più complessa, come sguardo umano e antieroico, quella capacità di parlare dell’uomo nelle sue ragioni essenziali. Anche noi vorremmo che il protagonista di Tempo di uccidere non se ne andasse mai, rimanesse lì per sempre. “L’aver ucciso Miriam ora mi appariva un delitto indispensabile, ma non per le ragioni che l’avevano suggerito. Più che un delitto anzi, mi appariva una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso. Amavo, ora, la mia vittima e potevo temere soltanto che mi abbandonasse”.

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