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Sirene di cielo e di mare

Nadia Terranova

Metà pesci o metà uccelli. Feroci o suadenti. Si sono ribellate alla leggenda. Conservano solo il fascino del mistero

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Qualche mese fa, in una scuola media statale di Messina, invitata a discutere dei miti dello Stretto, mi sono trovata davanti un gruppo di ragazzine che aveva studiato a fondo la leggenda di Colapesce e doveva poi fornirne una rielaborazione. L’esito era un poster raffigurante le gesta di una creatura con la coda squamata color rosa acceso, il seno appena coperto da due conchiglie, i capelli lunghi e morbidi, le braccia sottili che sorreggevano la Sicilia con sicurezza e sensualità. Colapesce è fimmina!, mi hanno detto le ragazze convinte, e quando ho chiesto perché hanno risposto senza esitare: ma come perché, un maschio non ce la farebbe a tenere ferma l’isola da solo. Come dar loro torto?

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Qualche mese fa, in una scuola media statale di Messina, invitata a discutere dei miti dello Stretto, mi sono trovata davanti un gruppo di ragazzine che aveva studiato a fondo la leggenda di Colapesce e doveva poi fornirne una rielaborazione. L’esito era un poster raffigurante le gesta di una creatura con la coda squamata color rosa acceso, il seno appena coperto da due conchiglie, i capelli lunghi e morbidi, le braccia sottili che sorreggevano la Sicilia con sicurezza e sensualità. Colapesce è fimmina!, mi hanno detto le ragazze convinte, e quando ho chiesto perché hanno risposto senza esitare: ma come perché, un maschio non ce la farebbe a tenere ferma l’isola da solo. Come dar loro torto?

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Colapesce è fimmina!, mi hanno detto le studentesse. Un maschio non ce la farebbe a tenere ferma l’isola da solo! Apollonio Rodio nelle Argonautiche precisa: “In quel tempo, a vedersi erano in parte simili a uccelli, in parte a fanciulle”

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Ma pure, mi era impossibile non pensare alla strada percorsa nei millenni da quelle sirene che i greci raccontavano come sovrane di terre desolate, regni di morte e devastazione, a come quel nucleo si fosse trasformato nell’immagine brillante, pop e confortevole che avevo davanti. Per capire bisognava, anzitutto, andare molto indietro e rievocare il rimosso della rapacità sirenica. E poi, sparigliare, scombinare, rimescolare come avevano fatto loro. Se le ragazze di Messina mi avevano proposto il loro Colapesce fimmina, allora era il caso di interrogare un grande libro dedicato a una sirena masculo: “A Federico Fellini, mostro che mostra e mostrifica, Sirena egli stesso”. L’autrice è Meri Lao, e questa è la prima pagina del suo Le sirene (da Omero ai pompieri), magnifico testo pubblicato nel 1985 da Antonio Rotundo Editore (e oggi, non lo ristampa nessuno?).

 

Nell’incipit, Lao colma il vuoto di parole intorno alle sirene che ereditiamo dall’origine: “Omero ha tralasciato di descrivere il loro aspetto fisico. Farlo sarebbe stato superfluo dato che, almeno sin dall’età micenea, tutti le conoscevano. Era notorio, per esempio, ciò che in seguito si è dimenticato: che le Sirene erano donne-uccello. Mammelle floride, ali piumate, viso femmineo che talvolta amava anche ornarsi di barba, artigli di rapace quasi sempre, meno frequentemente zampe leonine e, vera rarità, parte inferiore del corpo a forma di uovo. Quando il loro irresistibile canto – caratteristica suprema – richiederà l’accompagnamento di strumenti musicali come la lira, l’aulòs, i cimbali, i tamburelli e i crotali, le Sirene si muniranno di braccia umane per sostenerli e suonarli”. A questa famiglia di sirene irsute si rifà, per esempio, Stefano D’Arrigo in Horcynus Orca: “Ma ve la figurate a sirena sta iattamammona? Ve la figurate che fa impazzire gli uomini con le sue beltà? E dove le ha ste beltà? Dove se le tiene nascoste? (…) Sta baffuta secondo voi, questa, i naviganti scangiavano per femmina, sino al punto di rovinarsi per lei sugli scogli?”. La sirena-mostro non è bella e dà la morte, anche se poi, visto che quella morte lei la conosce così bene, viene chiamata e utilizzata per lenirla: statue di sirene-arpie che si battono il petto per il dolore sono frequenti custodi di tombe, figure protettive di sepolcri e luoghi funerari. E poi, i mostri sono sempre stati usati per tenere lontani gli altri mostri. Nella cattedrale di Poitiers, il bassorilievo di una sirena nana con ali rapaci e coda di serpente appare sicura di sé, orribilmente affascinante e del tutto efficace nel tenere i demoni fuori dal perimetro sacro.

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Torniamo a Omero. Tutti conoscevano le sirene, perciò il poeta non perde tempo a descrivere quello che il semplice nome basta a evocare, preferendo indugiare sugli esiti letali del canto, sugli scheletri e i teschi che galleggiano in riva all’isola, descritta piuttosto come un prato fiorito; ci vorrà Apollonio Rodio nelle Argonautiche per precisare: “In quel tempo, a vedersi erano in parte simili a uccelli, in parte a fanciulle”. Anche qui, come nell’Odissea, l’isola delle sirene è verdeggiante, ma intanto l’iconografia racconta un’altra storia e, nelle immagini del mondo classico, le donne-uccello del Mediterraneo se ne stanno per lo più appollaiate su scogli e terre brulle, estensione paesaggistica della loro autentica marcescenza, espressione di un’anima fatale e mortifera. Meri Lao insiste sull’oscurità spaventosa del femminile insita nelle ali: “Nate come ninfe, le Sirene ebbero le ali per castigo o per premio. Nate come donne alate, all’opposto, per gli stessi motivi si dice che gli furono tarpate”. Nel mondo antico, al gineceo sirenico non è permesso di vincere né sul maschile (vengono gabbate da Ulisse), né su un altro femminile, quello ancillare e aggraziato di altre creature ispiratrici. Secondo il racconto di Stefano di Bisanzio, le sirene osano gareggiare con le Muse nel canto; e allora vengono sconfitte e poi derise dalle vincitrici che per umiliarle strappano loro le penne. Nude, messe alla gogna, spiumate e messe all’angolo da creature fatate e compiacenti, le sirene si suicidano. All’origine, il mito della sirena è un mito perdente; per sopravvivere deve farsi adattivo, nascondere la sua mostruosità, tumulare dietro un aspetto ammaliante la consuetudine assassina: è così che, nel Medioevo, le creature dell’antichità perdono le ali e acquistano le squame.

 

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In un bestiario latino del 1230 circa, c’è una raffigurazione precisa del momento in cui avviene la metamorfosi: una sirena-uccello sul fondo del mare, che ha sia le ali sia la coda, al posto delle gambe un paio di zampe e in mano un pesce, brandito come una preda fresca. L’originale si trova a Parigi, alla biblioteca nazionale, ma l’immagine è riprodotta in un libro, Bestiari del Medioevo di Michel Pastoreau (Einaudi); nella didascalia si legge che il miniaturista sarebbe “un po’ confuso” circa la scelta di raffigurare la sirena come acquatica o volatile. A me sembra, piuttosto, l’istantanea di quel passaggio di consegne fra una malia sgovernata e un fascino più docile, il momento magico in cui entrambe le fattezze, rapace e pesce, erano ancora possibili perché la prima non si era ancora perduta e la seconda non si era ancora affermata.

 

Con la vittoria delle muse vince l’arte istituzionalizzata, infusa nei potenti da una voce femminile non pericolosa, vincono l’elogio della vita, la speranza in una sapienza lenitiva, l’imposizione della saggezza come conforto e autorevolezza; la sconfitta delle sirene è la perdita del dionisiaco, della smarginatura primordiale, la preclusione a una vita sgovernante e sgovernata. La musicalità prevale sulla musica, la normatività sul primordiale. Sostituite le ali con le pinne (in greco, avverte Lao, si usa la stessa parola: pterughion), per le sirene pisciformi, che pure hanno un lato oscuro e a volte progenie e affinità mostruose, comincia un’epoca di accettabilità. Plinio non credeva alle sirene alate, ma considerava vere tutte le testimonianze di visioni di donne dal corpo ricoperto di squame. Ovunque, l’immagine della donna con la coda comincia ad affiancare quella del maschio tritone, che bilanciandola la neutralizza. Spostando tutto il suo potere sulla sola voce, la sirena diventa facilmente domabile: “Sirene: vissero feroci e stupende. Una laringite le vinse”, può così ironizzare Gesualdo Bufalino in un aforisma. Della terna classica, Leucosìa o Leucote (la sirena dalla pelle chiara), Partenope (la sirena vergine), Lighea (la sirena dalla chiara voce), è la terza a emergere e persistere, a imporsi come la più popolare, e, nell’omonimo racconto di Tomasi di Lampedusa, è lei stessa a prendere le distanze dalle sue origini rapaci: “Non credere alle favole inventate su di noi: non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto”, dice a Rosario La Ciura, che a quelle parole perde definitivamente ogni freno, amandola per settimane “come cento dei vostri Dongiovanni”, come racconterà da vecchio al giovane Paolo Corbera. Nel bel libro Sirene siciliane (Sellerio), il poeta orlandino Basilio Reale ravvisava nell’agitarsi dei fantasmi del desiderio che rompono l’immobilismo un movimento tutto sirenico, cosicché “la Sirena sembra assumere l’aspetto problematico di un’intera cultura”, quella siciliana.

 


In Italia negli anni Settanta e Ottanta, i bambini venivano irretiti dalla possibilità di comprare embrioni di “scimmie di mare”. Secondo il poeta orlandino Basilio Reale tra la sirena e le correnti isolane c’è un rapporto di reciproca appartenenza


 

Secondo Reale – ed ecco l’intuizione felice delle ragazze della scuola media dispiegarsi in profondità – tra la sirena e le correnti isolane c’è un rapporto di reciproca appartenenza: “Nessun altro mare avrebbe potuto favorire meglio l’incontro del giovane Rosario La Ciura con una dea delle acque. Poco lontano da lì, costeggiando lo Stretto di Messina fino a Capo Peloro (oggi Faro), secondo alcuni cartografi dell’immaginario ci imbatteremmo nell’Isola delle Sirene”.

 

L’oscenità delle vecchie creature alate, confinata nella tessitura del canto delle pisciformi, prosegue però in altri immaginari: sirene con la doppia coda all’insù e le gambe aperte che mostrano i genitali, sirene-serpente, sirene-scimmie. Nella realizzazione di queste ultime, gli artigiani più bravi sono in Cina e in Giappone, con la realizzazione di bambole fatte con corpi di scimmia dall’ombelico in su e di pesce dall’ombelico in giù (Viola Di Grado, scrittrice, orientalista e aliena, come lei stessa si definisce, mi ha mandato splendide e rare foto di questi manufatti). Intanto, in occidente, si perseverava nella direzione opposta. In Italia, negli anni Settanta e Ottanta, i bambini venivano irretiti sulle pagine dei giornaletti dalla possibilità di comprare per corrispondenza embrioni di “scimmie di mare” da allevare a casa, nella vasca dei pesci rossi, con tanto di istruzioni per ammaestrarle al modico prezzo di 12.900 lire. Si trattava in realtà di un minuscolo crostaceo, l’Artemia salina, ma la reclame suggeriva si trattasse di una creatura femminile un po’ gorilla e un po’ pesce: così la sirena, quell’antica spaventosa entità assassina ormai disarmata, cascava infine nell’acquario come un’innocua e sottomessa attrazione circense.

 

Nel Canto delle sirene di Maria Corti, verso la fine c’è un significativo dialogo tra un uomo e una donna, in cui lei dice di aver sentito le sirene, e lui, scettico, risponde che mica stanno in alto mare, non ci sono canti di quel tipo nella pianura lombarda; lei ribatte che esistono anche le sirene d’acqua dolce, lui continua a negare, i pescatori dei laghi lombardi sono persone concrete, non subiscono il fascino di un destino funesto, in più lei è una donna, si è mai sentito che una donna subisca l’incantamento delle sirene? Lei insiste: quando sono le donne a scrivere, come Saffo o Virginia Woolf, le cose cambiano, e tra l’altro sono entrambe morte in acqua. Lui sferra l’ultimo contraccolpo e la zittisce così: “La mia maggiore aspirazione è parlare di te, non di sirene, di pietre lunari e di streghe; non prendiamocela con qualche immaginazione sentimentale, eredità della tua cultura umanistica e che sottopone a logorio il raziocinio. Non perdiamo le buone occasioni di farlo funzionare”. A quel punto tacciono entrambi, non c’è più niente da dire, in poche righe, Corti ha condensato la lunga strada della sconfitta dell’anima feroce delle sirene. Eppure, se all’antica magia è permesso di concentrarsi solo nel canto, e quel canto diviene convenzionale, resta comunque una fuga, ed è sottrarsi a quel finto potere, finto perché prima concesso e poi sorvegliato. Franz Kafka ha scritto una volta di quel tacere: “Ma le sirene hanno un’arma ancora più terribile del loro canto, ed è il loro silenzio. Non è mai accaduto, ma forse non è del tutto inconcepibile che qualcuno si possa salvare dal loro canto, ma dal loro silenzio certo no. Alla sensazione di averle vinte con la propria forza, all’orgoglio che ne consegue e che tutto travolge, nessun mortale può resistere”.

 

Ribellandosi col silenzio alla loro stessa leggenda, al rito depotenziato del canto entro cui sono state poco a poco confinate, le sirene possono conservare la loro mistica ferocia e, soprattutto, ricordarla agli umani con un inatteso colpo di coda – o forse era un fruscio d’ali.

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