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L’uomo che cambiò il polo nord

Marzio G. Mian

Ex alcolista, ex ballerino di Broadway, si è trasformato nella figura simbolo del nuovo Artico. Richard Beneville, morto di Covid, è stato il visionario eroe dei ghiacci. Ricordi di un viaggio nel posto più importante della terra

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La baia è una selva di gru rosse e blu, una dozzina di scavatori rimestano nella melma. Anche il pick-up stenta a farsi strada verso il porto, ma Richard Beneville, il sindaco di Nome, se la cava bene col volante lasciando cullare il mezzo nella fanghiglia, lo spinello stretto tra le labbra con eleganza da dandy. E indica il cimitero sulla destra: le croci sono inclinate, oppure rovinate a terra a causa del terreno che si scioglie con tutto quello che c’è sotto, cadaveri degli ultimi decenni insieme ai mammut. “Qui se uno schiantava d’inverno s’aspettava giugno per seppellirlo, quando si riusciva a scavare una buca decente”, diceva con il suo accento di Brooklyn. “Ora i morti li parcheggiamo in un cimitero d’emergenza all’interno, nella tundra, dove il permafrost tiene ancora. Ma il problema è che spesso se li mangiano gli orsi”. L’immagine è la prima che emerge dal ricordo di quei giorni trascorsi un paio d’anni fa con Richard a Nome, neanche quattromila abitanti, nell’Alaska nord occidentale, sullo Stretto di Bering. Era stata una delle tappe più importanti d’un viaggio-inchiesta nell’Artico americano con l’amico fotoreporter Nanni Fontana. L’ampliamento del porto doveva essere il testamento del sindaco, il suo lascito alla gente di Nome (due terzi indigeni Iupiat) che l’aveva scelto per tre volte, e agli Stati Uniti. Aveva convinto quelli della Us Army Corps of Engineers che la “porta dell’America sull’Artico” andava aperta lì, sull’onda di un aumento degli attracchi del 500 per cento in cinque anni, senza contare le grandi navi da crociera o i bulk portacontainer costretti a rimanere in rada per mancanza di docks adeguati. Lo scorso novembre il segretario di stato Mike Pompeo, quello che ha portato la questione artica in cima all’agenda dell’Amministrazione Trump (per contrastare la dottrina polare della Cina), è stato decisivo per avviare uno stanziamento di quasi un miliardo di dollari per il porto di Nome, giudicato “strategico per la sicurezza nazionale”.

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La baia è una selva di gru rosse e blu, una dozzina di scavatori rimestano nella melma. Anche il pick-up stenta a farsi strada verso il porto, ma Richard Beneville, il sindaco di Nome, se la cava bene col volante lasciando cullare il mezzo nella fanghiglia, lo spinello stretto tra le labbra con eleganza da dandy. E indica il cimitero sulla destra: le croci sono inclinate, oppure rovinate a terra a causa del terreno che si scioglie con tutto quello che c’è sotto, cadaveri degli ultimi decenni insieme ai mammut. “Qui se uno schiantava d’inverno s’aspettava giugno per seppellirlo, quando si riusciva a scavare una buca decente”, diceva con il suo accento di Brooklyn. “Ora i morti li parcheggiamo in un cimitero d’emergenza all’interno, nella tundra, dove il permafrost tiene ancora. Ma il problema è che spesso se li mangiano gli orsi”. L’immagine è la prima che emerge dal ricordo di quei giorni trascorsi un paio d’anni fa con Richard a Nome, neanche quattromila abitanti, nell’Alaska nord occidentale, sullo Stretto di Bering. Era stata una delle tappe più importanti d’un viaggio-inchiesta nell’Artico americano con l’amico fotoreporter Nanni Fontana. L’ampliamento del porto doveva essere il testamento del sindaco, il suo lascito alla gente di Nome (due terzi indigeni Iupiat) che l’aveva scelto per tre volte, e agli Stati Uniti. Aveva convinto quelli della Us Army Corps of Engineers che la “porta dell’America sull’Artico” andava aperta lì, sull’onda di un aumento degli attracchi del 500 per cento in cinque anni, senza contare le grandi navi da crociera o i bulk portacontainer costretti a rimanere in rada per mancanza di docks adeguati. Lo scorso novembre il segretario di stato Mike Pompeo, quello che ha portato la questione artica in cima all’agenda dell’Amministrazione Trump (per contrastare la dottrina polare della Cina), è stato decisivo per avviare uno stanziamento di quasi un miliardo di dollari per il porto di Nome, giudicato “strategico per la sicurezza nazionale”.

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Un viaggio-inchiesta nell’Artico americano con l’amico fotoreporter Nanni Fontana. E il sindaco di Nome, Richard Beneville. “Gli uccelli arrivano molto prima, quasi due mesi d’anticipo rispetto a una ventina d’anni fa. Parlo di 24 milioni di migratori”

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Richard nel cantiere raccontava che in pochi anni il periodo in cui il porto è icefree s’è allargato di oltre due mesi, ora va da marzo a dicembre, e Nome sta diventando la base delle flotte pescherecce della California che dal Pacifico inseguono merluzzi e pollock oltre le Aleutine verso Nord e nel mare di Bering dove si spingono in cerca d’acque più fredde. Ma la vera urgenza era di stare al passo con il traffico internazionale dello Stretto, il canale naturale che collega il Nord Pacifico all’Artico russo e cioè alla Northern Sea Route, il vecchio passaggio a Nord Est che sta diventando una bretella marittima tra oriente e occidente e per la Cina la Via della seta polare, scorciatoia della globalizzazione regalata dal riscaldamento globale che squaglia irrimediabilmente i ghiacci. Negli ultimi otto anni il transito delle navi da e per l’Asia al largo delle coste di Nome è cresciuto al ritmo del 430 per cento. E il piccolo Richard Beneville era lì sul molo a osservare questa prateria di futuro: “La vera risorsa di questa regione”, diceva strabuzzando i suoi fanciulleschi occhi celesti incastonati nelle rughe, “più del petrolio, dell’oro o del granchio reale, è la geografia!”.

 


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L’ex sindaco della città, Richard Beneville, che è stato anche ballerino di Broadway, ritratto da Nanni Fontana - foto di Nanni Fontana


 

Quando è morto (probabilmente di Covid) a metà maggio, giustamente è stato un lutto che dall’Alaska ha raggiunto Nuuk in Groenlandia, Tromsø in Norvegia, la Yakutia russa; l’hanno ricordato i capi delle etnie indigene di cui era diventato un riferimento nei consessi internazionali, leader come l’ex presidente islandese Ragnar Grimsson così come i colleghi sindaci delle città artiche che aveva riunito in un club: nonostante avesse più di settant’anni era tra i più contagiosi visionari del Grande Nord, una delle figure simbolo del Nuovo Artico, questa fetta di mondo che sembrava fuori dal mondo e in dieci anni è stata risucchiata nel vortice della Storia. “Molti uomini calpestano la terra e alcuni, come Richard, vi lasciano un’impronta”, si legge sul sito della municipalità.

 

Arriva in Alaska come quasi tutti, per cambiare pianeta. Si dimette dalla civiltà nel 1982, dopo una carriera da ballerino di tip tap e cantante nei musical di Broadway a New York; per la verità il talento s’è ormai prosciugato nelle bottiglie, Richard è un alcolizzato all’ultimo stadio quando la famiglia lo carica su un aereo per Anchorage con l’intenzione di disfarsi per sempre di quel vulcano di sciagure. Decide di trasformare la geografia in terapia, di rinascere estremamente sobrio all’estremità del continente, sull’Oceano artico. E finisce a Barrow, il centro abitato più a Nord d’America, noto per i balenieri ma piuttosto inadatto ai ballerini, anzitutto se squattrinati e viziosi: una bottiglia di scotch a Barrow costa come una settimana di sbornia da P.J. Clarke’s, il bar di Manhattan, sulla Terza, preferito da Richard. Un giorno si ricorda di possedere un altro talento, vaticinato nell’infanzia dalla nonna irlandese: “Ricky tu la racconti così bene che riusciresti a vendere frigoriferi agli eschimesi”. Ottiene quindi il posto di responsabile del reparto elettrodomestici all’Ac Store e dopo un paio d’anni di semiastinenza l’assumono come insegnante di sostegno per gli inuit disadattati alle elementari. Ma è a Nome, due giorni di motonave a sud-ovest, dove viene assegnato una trentina d’anni fa, che Richard diventa quello che incontriamo, uno degli uomini più felici e sobri mai visti. Tutti lo salutavano, lo cercavano, gli davano il cinque. Uno gli raccontava l’ultima chiacchiera di paese per godersi una sua battuta folgorante, l’altro gli chiedeva notizie del figlio sparito da una settimana, due ragazzini lo mettevano a parte del tricheco da mezza tonnellata che i genitori stavano scannando in garage. Si vedeva che aveva archiviato il ricordo di Broadway, il suo palcoscenico era Nome, i cui abitanti erano tutti protagonisti del suo show, Richard li faceva sentire tutti delle star, anche gli eschimesi persi nell’alcol sui marciapiedi e sulle panchine della biblioteca civica: “You’r my hero!” esclamava nel salutarli. “Qui non puoi fingere d’essere felice se non lo sei davvero”, diceva, “e soprattutto se non bevi; tutto è così reale che non hai scampo, questa resta l’ultima delle ultime frontiere; a parte gli smartphone e il goretex poco è cambiato dai tempi della corsa all’oro o da quando comparvero i vostri compaesani dal cielo”.

 


La storia è quella del Norge, il dirigibile pilotato da Umberto Nobile che dopo aver per la prima volta sorvolato il Polo nord, il 13 maggio del 1926, a causa d’una bufera non riesce ad ancorare a Nome come previsto, ma scende prima, a ottanta miglia di distanza su Teller, un pugno di capanne abitate da indigeni. “Grande Foca Volante”, chiamano quell’entità gigantesca che ballonzola in cielo, ma quando Nobile fa calare le cime le agguantano e salvano un’impresa che avrebbe potuto anticipare il disastro planetario che sommergerà di vergogna Nobile due anni dopo con il dirigibile Italia. A Nome è tutto pronto per celebrare l’impresa che ha tenuto in ansia il mondo; nell’archivio del The Nome Nugget, il foglio più antico d’Alaska, scopriamo che il sindaco Thomas Gaffney ha già divulgato il discorso nel quale ringrazierà l’Italia e Benito Mussolini per “aver aperto una nuova rotta per l’umanità, come già fece il vostro Cristoforo Colombo”. Su Front Street i gesuiti hanno steso uno striscione: “From Rome to Nome”. In realtà sul dirigibile pilotato (eroicamente) dal tenente napoletano che non aveva nemmeno la patente d’auto, il capo della spedizione, avvolto nella pelle d’orso, era Roald Amundsen, il mitico e istrionico esploratore norvegese. Tra i due ci fu subito diffidenza, il norvegese riteneva Nobile un “tipico mediterraneo inaffidabile” e non voleva associare la sua immagine a quegli italiani che in cima al mondo “sorseggiavano il caffè nel servizio di porcellana”, canticchiavano quelle loro arie romantiche e dopo 13 mila chilometri e settanta ore filate di trasvolata si presentavano agli indigeni in alta uniforme (salvo poi farsi prestare le pellicce). Ogni rapporto si rompe quando Nobile, su ordine di Mussolini, s’intesta la conquista e compie un viaggio trionfale in dodici città degli Stati Uniti, “tra le colonie italiane”, come le definisce il duce. E’ promosso generale via telegramma e viene ricevuto da Calvin Coolidge alla Casa Bianca (Titina, la cagnolina portafortuna di Nobile, farà la pipì nella Green Room). Con il sindaco Beneville abbiamo visitato la squallida striscia di terra dove sono stati eretti due piccoli monumenti in bronzo, trascurati e malridotti dalle intemperie. I cippi sembrano voltarsi le spalle, uno è eretto dai norvegesi e celebra Amundsen, “nel suo primo volo transpolare sopra il Polo nord” e ignora completamente Umberto Nobile; l’altro, dell’Aeronautica militare italiana, sorregge un pregevole bassorilievo “in onore della gloriosa impresa umana” ed elenca tutto l’equipaggio della Grande Foca Volante.

  


“La vera risorsa di questa regione”, diceva il sindaco, “più del petrolio, dell’oro o del granchio reale, è la geografia!”. Quando gli uomini del Norge arrivano a Nome, per loro è come vivere in un libro di Jack London, neve, cani, whisky, pepite e bordelli


  

Quando gli uomini del Norge arrivano a Nome, per loro è come vivere in un libro di Jack London, neve, cani, whisky, darwiniana lotta per la sopravvivenza, pepite e bordelli. Sulla Front Street, raccontava Richard, s’assiepavano ventimila uomini, c’erano settantacinque saloon e due chiese: “Circolavano così tanti dollari che Nome, in rapporto alla popolazione, dopo il terremoto di San Francisco spedì più denaro di qualsiasi città americana”. Centinaia d’aspiranti pionieri continuano ad arrivare da tutto il paese; Nome sta calamitando una nuova umanità in cerca di fortuna grazie alle quotazioni dell’oro e della popolare serie reality Bering Sea Gold. Vite al limite della follia. I ragazzi sbarcano con una sacca, spadellano nel fango alla foce dei fiumi o in riva all’oceano per qualche mese e ripartono con un gruzzolo luccicante che spesso viene bruciato in una notte ad Anchorage o a Seattle, ma a volte permette loro di pagarsi il college. Qualcuno decide d’uscire dai radar e sparisce into the wild in una baita tra le montagne, con un cane, un fucile e qualche libro. Un mondo ancora spietato, da uomini duri, eppure Richard tra loro non nascondeva la sua omossessualità, condivideva una canna al Polar Caffè, li aggiornava sulla sua battaglia per legalizzare la marijuana in Alaska, sui suoi piani di sviluppo del porto.

 


Foto di Nanni Fontana


 

Quando sorvoliamo Teller con un Cessna Caravan della Bering Air è una mattinata splendida, la banchisa è striata di rosa, s’estende sullo stretto fino all’ampio corridoio d’acqua che separa il pack della sponda russa, distante solo 80 chilometri. All’orizzonte, a settentrione, la velata silhouette delle isole Diomede, Piccola Diomede è americana, Grande Diomede è russa, divise da due chilometri di mare e da ventuno ore di fuso orario, la prima chiamata Isola di Oggi e la seconda Isola di Domani. Evocano le sagome cupe di due sommergibili. In lontananza, nel riverbero degli isolotti di ghiaccio, un bulk carrier in navigazione probabilmente dalla Cina e diretto verso lo Stretto. Ai tempi del Norge erano queste le colonne d’Ercole del Grande Nord, paradigma di spazi inviolati e metafisici; oggi questi due lembi di terra, avamposti continentali che si sfiorano come gli indici delle mani protese nella Creazione di Michelangelo, segnano la linea di centrocampo nella partita tra due superpotenze e la porta d’ingresso verso un immenso Klondike. Annunciano anche l’inizio d’un nuovo mare, sempre più blu, sempre più caldo, sempre più conteso. Richard raccontava di come, dopo il crollo del Muro di Berlino, c’erano state delle aperture, le famiglie Iupiat ottenevano permessi da russi e americani per visitare i parenti oltreconfine e rinsaldare rapporti tribali millenari, interrotti con la Guerra fredda. Ci fu anche il caso della Renda, la nave russa che arrivò dal porto di Provideniya a portare gasolio a Nome perché quell’inverno era stato tremendo e nessun tanker americano riusciva a risalire il Mare di Bering, la popolazione era al buio e al freddo. “Pensa, era solo il 2012. Sembra un’altra era, molti ragazzini Iipiat si chiamano Renda, per dire. Oggi invece qui c’è il Muro di Bering, i caccia russi sconfinano, quelli americani li mettono in fuga. I meccanismi s’inceppano, accade per gli uomini e per la Natura”, osservava il sindaco.

 

Eravamo davanti a una vasta palude che si frappone tra la tundra e la costa: “Gli uccelli arrivano molto prima, quasi due mesi d’anticipo rispetto a una ventina d’anni fa. Parlo di 24 milioni di migratori. Delle centocinquanta specie che migravano qui, almeno una ventina sono ormai stanziali, come lo stercorario, l’uccello che percorre la più lunga rotta al mondo, dall’Antartide all’Artico e viceversa ogni anno. Ora è attratto dallo scioglimento del permafrost, cioè dalla merda in cui sta sprofondando la terra artica e dalla quale escono cose tremende, forse anche batteri zombie” diceva con ribrezzo Richard Beneville. “Lo stercorario ci avverte del disastro, come i canarini nelle miniere”.

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