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Il segreto di Trieste

Giuseppe Marcenaro

L’arte e la letteratura del Novecento gravitavano attorno a una casa, sul colle di San Vito. L’eredità dei Malabotta e i testimoni di un tempo

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Superata la soglia si veniva accolti da sorridenti fanciulle. Una porgeva una tazzina di caffè. Era il benvenuto di quattro giovani garrule in forma di dipinto che allietavano il vano d’ingresso. Quattro tele del Settecento veneziano. Poi, nel luminescente salotto, l’attenzione era fulminata da un grande ritratto. Dalla parete di fondo dominavano, con sfrontato distacco, i lineamenti di un ragazzotto abbrustolito dalla propria ambiguità: Allegro, uno tra le più singolari opere di De Pisis. “E’ stato dipinto a Rimini nel 1940. Ritrae un ragazzo dagli occhi verdi che De Pisis aveva conosciuto sulla spiaggia. Mio marito lo acquistò da Giovanni Comisso che, confessò, lo cedeva perché non era riuscito ad adeguarsi allo sguardo indagatore di quel ragazzo”. Franca Malabotta raccontava con vitale naturalezza, come fosse la storia più normale, le vicende dei dipinti che arredavano la sua casa: non una raccolta esito di collezionismo ostinato e bizzarro, ma la storia di una vita.

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Superata la soglia si veniva accolti da sorridenti fanciulle. Una porgeva una tazzina di caffè. Era il benvenuto di quattro giovani garrule in forma di dipinto che allietavano il vano d’ingresso. Quattro tele del Settecento veneziano. Poi, nel luminescente salotto, l’attenzione era fulminata da un grande ritratto. Dalla parete di fondo dominavano, con sfrontato distacco, i lineamenti di un ragazzotto abbrustolito dalla propria ambiguità: Allegro, uno tra le più singolari opere di De Pisis. “E’ stato dipinto a Rimini nel 1940. Ritrae un ragazzo dagli occhi verdi che De Pisis aveva conosciuto sulla spiaggia. Mio marito lo acquistò da Giovanni Comisso che, confessò, lo cedeva perché non era riuscito ad adeguarsi allo sguardo indagatore di quel ragazzo”. Franca Malabotta raccontava con vitale naturalezza, come fosse la storia più normale, le vicende dei dipinti che arredavano la sua casa: non una raccolta esito di collezionismo ostinato e bizzarro, ma la storia di una vita.

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A Trieste, sul colle di San Vito, c’era una casa affacciata sulla città dove venivano accolti letterati, artisti, uomini di cultura

Quelle opere stavano a Trieste, sul colle di San Vito, in una casa affacciata sulla città. Una casa che dava la sensazione di stare su un’altana. Anche su un confine, dove si “sentiva” il mondo tra l’usuale del quotidiano e l’etereo impalpabile. La grande vetrata offriva il panorama sulla città perlacea. Dalle finestre sul retro, in lontananza, si percepiva la terra slovena. E come tutti i luoghi posti su un confine, anche questa casa sembrava vocata all’extraterritorialità. La medesima aspirazione di chi aveva scelto la propria dimora in quel luogo, individuato come punto geodetico. Un ambito dove percepire il respiro del mondo, in cui intendere la cultura della vita e la vita come cultura e dove in ponderate conversazioni o in allegra brigata, ospiti di Manlio e Franca Malabotta, venivano accolti letterati, artisti, uomini di cultura e certi “curiosi eccentrici” di una ormai inabissata stagione.

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Manlio Malabotta, nato nel 1907, di professione notaio, visse immerso nell’arte e nella poesia. Di una curiosità bulimica, informatissimo, sensibile ai “messaggi” artistici che venivano dall’Europa, non soltanto da spettatore, ci volle poco affinché Leo Longanesi, gran cacciatore di talenti, facesse collaborare il giovane notaio (allora il più giovane d’Italia) alle sue rivista “Il Libraio” e “L’Italiano”, dove Malabotta esordì con testi illustrati da fotografie scattate da lui medesimo. Spaziava in dimensioni sempre più ampie – critica d’arte, fotografia, scrittura – ma il “suo vero mondo” restava la “sua città”: Trieste e il dialetto: fertile humus dei versi pubblicati da Manlio Malabotta chez Vanni Scheiwiller – Pianzer fa bele le foie, Fiori de nailon – liberi omaggi con echi di Saba e Giotti: “Mia zità, te xe restà la scorza e ‘1 tuo color de miel. Ma la sirena de ‘n vapor me sbrega drento come che fussi ‘n urlo in tal deserto”.

 

Con una irresistibile passione predominante per la città perlacea color de miel Malabotta, non si lascia certo scappare l’universo dei pittori “locali”, quelli però con lo sguardo lungo e attento alle esperienze artistiche europee: Arturo Fittke, il formidabile Giorgio Carmelich, Arturo Nathan, Vittorio Bolaffio. E intanto non si fa sfuggire “emergenti” come Arturo Martini, Giorgio Morandi e soprattutto De Pisis: “Nel 1931 ho visto il primo quadro di Filippo De Pisis, un vaso di fiori”.

 

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A cena con Gerti, la donna del Carnevale di Eugenio Montale. Si tuffò in un risotto agli asparagi selvatici con sorpreso entusiasmo

Fortuna di quest’uomo intricato tra arte e letteratura, con scelte estetiche anche contraddittorie, fu aver incontrato e sposato Franca Fenga che, dopo la scomparsa di Manlio nel 1975, del marito onorò “il culto della memoria”. La “signora Franca” o anche “donna Franca”, triestina a tutti gli effetti, in realtà era nata curiosamente a Catania. Veniva da una famiglia di nobili siciliani approdata nelle città giuliana a far fiorire i propri commerci e che nel melting pot triestino, commisto di individualità dalle origini diverse, etniche, religiose, linguistiche aveva acquisito una eccentrica identità. La memoria e l’orgoglio delle radici aveva indotto tuttavia il padre di Franca, compiutosi il tempo, da Trieste, a condurre la moglie nella città d’origine affinché il nascituro venisse al mondo nella terra dei suoi avi. Franca nacque a Catania l’11 marzo 1924. Nella sua casa sulla collina di Trieste, con la memoria piena da una esistenza appagante, se ne è andata alla fine dello scorso aprile: nella sua una lunga vita aveva dispensato amicizia, curiosità intellettuale e soprattutto una nobile disponibilità, sensibile alle più varie oscillazioni del cuore.

 

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La signora Franca aveva condiviso l’instancabile curiosità e la compulsiva passione collezionistica del marito che, oltre ai dipinti dei suoi contemporanei, essere un intricato raccoglitore di oggetti di raro antiquariato, adunare opere di verticistica bibliofilia, raffinate quanto esclusive edizioni dalla tiratura limitata di autori del suo tempo, c’è da esser certi esprimesse la “passion predominante”, certamente inconfessata, non nel possesso in senso stretto e nell’esibizione delle sue trouvailles ma nella condivisione del piacere artistico con il gran girone di quanti amava incontrare e accogliere nella sua casa. Malabotta collezionava l’amicizia degli intelligenti che la sorte, nell’arco di una vita, aveva avuto la ventura di conoscere. Intricati alla naturale vocazione sua e di Franca di attraversare da protagonisti la vita tale a una vera e propria avventura artistica e letteraria: un inesausto quotidiano bricolage nutrito di curiosità per genialità esibite o nascoste, ammirabili e freak, stranezze di eccentrici da riderne o commiserare. E nell’elegante casa sulla collina di San Vito, in funzione delle collezioni adunate da Malabotta “disegnata” da Romano Boico – l’architetto che conferì l’odierno aspetto dalla Risiera di San Sabba, di tragica memoria – celebrare con l’immancabile ombra di fol, un vino immediato e diretto che dispensa felicità e mestizia a un tempo.

 

Fortuna di quest’uomo intricato tra arte e letteratura, con scelte estetiche anche contraddittorie, fu aver incontrato Franca Fenga

E così con lo stupore degli occhi e i tuffi del cuore, attraverso la parade dei dipinti, in contemplazione guidata dalla voce della signora Franca che, dopo la morte di Manlio, è stata la naturale testimone e custode della vita e delle passioni del marito, intendere e “vedere” il palesarsi di parvenze tra realtà e memoria: “Oltre ad Allegro, Manlio aveva acquistato, ceduti pezzo per pezzo da Giovanni Comisso quasi tutti i De Pisis della sua collezione e alcune sculture di Arturo Martini. Mi pare che da Comisso venissero sette olii. E poi ne aveva acquistato sei da Umberto Saba, uno da Vanni Scheiwiller e uno da Leonor Fini”. Per poi sorprendendo l’avventizio visitatore, quasi una nota a pie’ di pagina, precisare come alcune di quelle opere fossero non soltanto “quadri” ma “personaggi della vita e della letteratura”: Il Gladiolo fulminato, olio di De Pisis “vivente” ne La macchina di Goering, racconto di Comisso pubblicato nel 1951 su “Illustrazione italiana”. E La bottiglia tragica autentica trucida tranche de vie, trasfigurata in dipinto esalante alcool e peccaminosi umori, vissuta a Parigi da De Pisis: “Se li era portato a casa per offrire da bere a due giovani, e il vino li aveva fatti impazzire, e uno di loro lo aveva colpito con una bottiglia di Medoc”.

 

La casa di Franca Malabotta a Trieste era un punto di riferimento e incontro di quanti, con pulsioni artistiche e letterarie, approdavano alla città giuliana. E di chi, dopo una conferenza o uno spettacolo godevano dell’ospitalità in quel mondo dove percepivano, invitati, di essere stati ammessi a un esclusivo quanto aristocratico universo: se ne rendevano conto e assaporavano il piacere dell’occasione. Impossibile non cogliere la gioiosa levità di una serata con i personaggi che avevano dato vita alla presentazione di un libro. Di là dalla grande vetrata, nella bruma levitava Trieste. Sul fondo, oltre il mare, solitario lume il Castello di Miramare. Abbandonati sui divani color burro. Immobile, quasi stupito di se stesso, seduto in punta, Stelio Mattioni, lo scrittore “scoperto” da Roberto Bazlen, uno dei personaggi più originali e curiosamente enigmatici della letteratura italiana del Novecento, venerato da Franca. Di Mattioli era stato presentato al triestino Circolo della Cultura e della Arti il nuovo libro “Il richiamo di Alma”. Poi Giorgio Zampa, uno dei presentatori, e Luciano Foà, il patron dell’Adelphi. Rievocati adesso, in una polla di memoria, ritrovati. Lo scambiarsi di notizie su comuni amici, le vecchie occasioni d’incontro, la rievocazione o l’uscita prossima di qualche ancora sconosciuto libro, la ristampa di un classico memorabile. E Livio Corsi, gran testimone della vita “minuta” di Bobi, appunto il mitico Bazlen, a evocarne aneddoti. E cercar conferma da uno dei principi dell’editoria italiana, appunto Foà, che nella sua apparente distrazione era attento a ogni sfumatura del colloquio, quasi fosse intento alla revisione di una traduzione da Joseph Roth. Certo che se la ricordava, la formidabile e complicata proposta di Bazlen all’editore Einaudi, dove a quel tempo Foà era segretario generale, di tradurre in italiano Der Mann ohne Eigenschaften di Musil. Storie di un mondo inabissato che allora suscitava attonite attenzioni. Intanto, con la levità di un folletto, bisbigliando qualcosa in triestino con la signora Franca, l’indimenticabile Maria, faceva “girare” il trattamento.

 

Quando a Trieste passava un suo amico, Franca lo invitava a casa, per fargli incontrare personaggi e originali figure della città

Quando a Trieste passava un suo amico, in confidenza o degno d’attenzione, Franca invitava a casa, per farglieli incontrare, personaggi e originali figure della città. Si poteva aver così l’occasione di conversare con ideali eminenze come Stelio Crise, Carolus Cergoly e Giorgio Voghera, riservatissimo nel tratto, mentre evocava con calma profetica il tempo in cui, durante le tempesta nazista, era andato a vivere in un kibbutz in Palestina e, tornato, aveva ripreso il suo impiego alle Assicurazioni Generali. Con nobiliare discrezione per gratificare la comprensibile curiosità dell’amico arrivato a Trieste, con allusioni Franca conduceva Voghera a raccontare storie dei suoi libri, la diffusione a Trieste della psicoanalisi, diventata di “gran moda” per merito di un allievo di Freud, il dottor Edoardo Weiss, amico di Umberto Saba e del filosofo Giorgio Fano. Discorrendo, la psicoanalisi per Voghera era la cura Freud, “come si diceva allora e che ebbe gran parte nei libri del signor Schmitz”, come si riferiva a Italo Svevo, intrecciandolo ovviamente a James Joyce, per anni aveva abitato nella “rispettabilissima città dell’imperial regno Austro-Ungarico”. Definito da Claudio Magris un illuminista scettico parlando di sé e dei suoi libri, Voghera svicolava, evitava di far riferimento alla storia dell’Anonimo Triestino, libro da lui scritto e da lui attribuito al proprio padre.

 

In quella casa, non “un salotto” nella accezione corrente ma un punto di grande attrazione culturale e umana, si incontravano ammirabili ed eccentrici testimoni del tempo: magari Gerti, uno dei “personaggi” della poesia di Montale. La Gerti del Carnevale e la “suscitatrice” di Dora Markus, evocata dal gran Eusebio attraverso la fotografia delle gambe di una sconosciuta: storie ormai stranote del teatro letterario del Novecento. Impossibile dimenticare la telefonata di Franca: “Stasera ti aspetto a cena. Ho invitato Gerti, così la potrai conoscere”.

 

Ci volle un cuscino sulla seggiola per farla arrivare al piano del tavolo. Non toccava i piedi per terra e, per tutto il tempo, non smise di dondolarli. Si tuffò in un risotto agli asparagi selvatici con sorpreso entusiasmo. Quella sera indossava pantaloni bianco panna e un bolerino di pizzo nero. Una toilette da grandi occasioni. Doveva essersi predisposta come per andare a teatro, pensando allo spettacolo curiosamente pettegolo che a casa di Franca si sarebbe potuto inscenare. Lei, Gerti, la vedette. I capelli biondo cenere ad ampia raggiera ricordavano quelli di Ofelia, la cui chioma sta sospesa al pelo dell’acqua. Sembrava appena uscita da una gouache di Grosz, o dalla Frasquita di Franz Lehàr. In tanta tragica frivolezza guardava il mondo con gli occhi di un clown calmo. Era fatta di memoria. Aveva conosciuto tutti. Al corrente d’ogni più occultato segreto aveva la pretesa, tipo avventizia maghetta, di predire il futuro con il piombo fuso gettato in un bicchiere. Visione e gesti che Montale ha reso eterni. Gerti era orgogliosa d’essere uno dei “burattini” di Eusebio, uno dei tanti personaggi che salirono sull’omnibus poetico montaliano insieme a Arletta, Marianna, Esterina, Irma, Liuba, Clizia, Mosca, Volpe... Ma fra tutte, tipi più o meno originali, ilari e tristi, perfidi e istrionici, Gerti era il più sorprendente. Una bambola degna dell’atelier del dottor Coppellio. Un carattere non insolito nelle pagine di Hoffmann. Nella sua apparente calma di vecchia bambina era di una simpatia extraperfida, fatta di domande sotto forma di silenzi; anche un po’ maligna, ma non poteva essere certo diversa, visto che aveva frequentato gente come Montale e Bazlen i quali, in tema di amabili perfidie, non erano secondi a nessuno.

 

Non fu certo un caso se nel 1982 Daniele Del Giudice approdò nella casa sul colle di San Vito. Era sulle traccie del “fantasma” di Roberto Bazlen e Franca conosceva le cartografie per indicargli esistenze e itinerari. Svelare certe ragioni per cui Bazlen anziché scrivere preferisse agire sulla vita delle persone. Del Giudice pubblicò Lo stadio di Wimbledon, un bellissimo libro evocante ombre e parvenze tra vita e letteratura, le strade percorse e le persone incontrate all’inseguimento dell’ineffabile Bazlen: in quelle pagine Franca affiora come “la signora dei sestanti”: uno spicchio della sua casa mediato sulla sua persona: la parade dei sestanti faceva da cornice e compimento a una finestra affacciata su Trieste.

 

Nel tempo, intanto, critici d’arte, studiosi di fama e direttori di museo, nel volgere degli anni, qual meta ebbero la visita alla ormai celebrata Collezione Malabotta. I quadri cominciarono anche a viaggiare, consentiti in prestito a importanti mostre. Poi, con munifica decisione, Franca Malabotta, prima del proprio exit, donò la raccolta dei dipinti e dei disegni di De Pisis al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea “Filippo De Pisis” di Ferrara, città natale dell’artista; le opere degli autori triestini al Museo Revoltella di Trieste; la biblioteca fu accolta alla Fondazione Cini a Venezia.

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