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La peste di Macondo

Nicola Fano

La quarantena che costringe l’uomo a fare i conti con la propria identità e con la memoria. Come in “Cent’anni di solitudine” di García Márquez

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Fermina Daza e Florentino Aziza non se lo sarebbero fatto dire due volte: loro la quarantena se la vissero con gioia; come una scelta di vita. Tanto che ai nostri occhi, ora, la decisione dei protagonisti de L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez sembra un po’ eccessiva, manichea. Troppo letteraria, magari. La vita bisogna viverla per raccontarla dice García Márquez, ma ha fatto in tempo a evitarsi il coronavirus, sicché in quel caso la vita dovette inventarla. Avete letto il romanzo (è del 1985, il primo dopo il conferimento del Nobel)? Se non lo avete fatto, approfittatene ora, può essere consolatorio.

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Fermina Daza e Florentino Aziza non se lo sarebbero fatto dire due volte: loro la quarantena se la vissero con gioia; come una scelta di vita. Tanto che ai nostri occhi, ora, la decisione dei protagonisti de L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez sembra un po’ eccessiva, manichea. Troppo letteraria, magari. La vita bisogna viverla per raccontarla dice García Márquez, ma ha fatto in tempo a evitarsi il coronavirus, sicché in quel caso la vita dovette inventarla. Avete letto il romanzo (è del 1985, il primo dopo il conferimento del Nobel)? Se non lo avete fatto, approfittatene ora, può essere consolatorio.

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Florentino Aziza è innamorato – inizialmente ricambiato – di Fermina Daza. Quando la donna gli volge le spalle lui decide di aspettare

Florentino Aziza è innamorato – inizialmente ricambiato – di Fermina Daza. Così devoto che quando la donna gli volge le spalle (gli innamoramenti sfumano, alle volte), lui decide di aspettare: l’attesa dà senso alla vita, come diceva Beckett. Occorre saper aspettare, occorre essere disposti all’arrivo di qualcuno, perché qualcosa o qualcuno arrivi: fuori dall’attesa c’è solo la morte. Fermina Daza, nel frattempo, rotto il fidanzamento con Florentino Aziza, sposa un medico raffinato, bello e benestante: la sua esistenza imbocca i binari della quiete borghese (siamo nell’Ottocento latino-americano) fatta di vita agiata, amiche ciarliere, circoli sportivi, figli quieti e un po’ bigotti.

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Florentino Aziza deve ricucire, invece, la frattura della sua vita: Fermina Daza scoprì di non essere più innamorata di lui dopo che il padre di lei, non accettando che la figlia potesse sprecare tempo con un giovane povero, l’aveva portata a fare un lungo viaggio lontano dal suo cuore. Insomma, i viaggi e la scalata sociale diventano le ossessioni di Florentino Aziza. Il quale, per sanare la ferita e apparecchiare la soluzione della sua vita, scala la proprietà della Compagnia Fluviale del Caribe. Ossia un colosso della navigazione: ricchezza e dovizia di viaggi in un colpo solo. Intanto, non resta che aspettare.

 

Il romanzo, in effetti, comincia con la morte di Juvenal Urbino, medico, marito di Fermina Daza. Durante il funerale, la vedova è avvicinata da Florentino Aziza il quale le confessa la persistenza del suo amore. Dal diniego ulteriore della vedova parte il racconto: una sorta di lungo flash back nel quale il lettore scopre la costanza della passione dell’uomo e lo stoico perbenismo della donna. García Márquez non li giudica, beninteso, ma sotto sotto si sente che parteggia per lui, per la sua tenacia cinquantennale (l’attesa, certificata nell’ultima pagina del romanzo, come vedremo, dura per l’esattezza cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni). Perché questa è la storia di un tiramolla, di un’altalena di illusioni, speranze e delusioni: la storia di una coppia impossibile.

 

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E’ curioso ma, più di vent’anni dopo, un altro grande sudamericano, Mario Vargas Llosa, ha scritto una vicenda quasi gemella (nello spirito, almeno): Avventure della cattiva ragazza. E’ il romanzo di un uomo che per tutta la vita aspetta di poter dare completezza alla sua passione, al suo amore per la niña mala, la cattiva ragazza, colei che sfugge e riappare continuamente nelle situazioni più assurde e imbarazzanti tra Europa e America Latina, fino al tragico epilogo. E’ curioso perché – come è noto – tra Vargas Llosa e García Márquez regnava una solenne inimicizia fatta di risse e rancori, acuita dal Nobel dato al colombiano nel 1982 (si parlò di una riappacificazione tra i due all’indomani del premio al peruviano, nel 2010, ma nessuno ci ha mai creduto davvero).

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Torniamo a L’amore ai tempi del colera. E’ proprio alla fine della storia, dopo milioni di lettere, pensieri e baci mai dati che Fermina Daza cede. Acconsente a un viaggio in nave da crociera della Compagnia Fluviale del Caribe (contro la volontà dei figli variamente ignari del senso dell’amore): ciò per cui Florentino Aziza ha costruito la sua fortuna e la sua vita. E qui, su una nave lussuosa ma un po’ fané, in un paesaggio corrotto dal sopraggiungere della modernità (“Presto prosciugheranno il fiume e saliremo su in automobile”, prevede il capitano della nave), si consuma finalmente, dopo 360 pagine di romanzo, l’amore tra i due. Ma è un amore avvizzito – fisicamente – fatto di carezze screpolate e corpi incerti seppure straordinariamente intimo: con tutta sincerità, queste sono tra le pagine migliori di García Márquez, condotte con la sua superba maestria di romanziere.

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Florentino Aziza è innamorato – inizialmente ricambiato – di Fermina Daza. Quando la donna gli volge le spalle lui decide di aspettare

Ma il colera, direte voi? E l’epidemia, la quarantena? La trovata del titolo rivela sostanza nell’ultima pagina del romanzo, la trecentosettataseiesima. Dopo aver risalito il grande fiume carica di merci, la Nueva Fidelidad (questo il metaforico nome della nave), deve ridiscendere trasportando viaggiatori. Salvo che tra costoro ci sono molte amiche di Fermina Daza che però non vuole assolutamente farsi vedere felice da loro: è pur sempre una vedova timorata di Dio e degli uomini.

 

E che ti inventa l’amante ebbro per non costringere la sua donna a rimanere tutto il tempo serrata in cabina? Dichiara la nave impestata dal colera. Sicché l’imbarcazione scarica tutti i passeggeri, alza una esplicativa bandiera gialla e comincia il suo viaggio a ritroso con quattro soli viaggiatori: lui e Fermina Daza, ovviamente, e il capitano con una gigantessa sua amante. Quando la nave sta per rientrare al porto, ovviamente, viene bloccata in quarantena. Non importa, dice Florentino Aziza, continueremo a navigare lungo il fiume. “E fin quando crede che possiamo proseguire questo andirivieni del cazzo?”, domanda il capitano. E García Márquez chiosa: “Florentino Aziza aveva la risposta pronta da cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni con le loro notti. ‘Tutta la vita’, disse”. Fine.

 

E’ una storia romantica, per certi versi, sì. Che forse potrebbe indurci a riscoprire questo sentimento proprio nella cattività imposta dal virus che ci attanaglia? Forse: proviamoci. Ma in realtà la dritta migliore che ci fornisce è un’altra: L’amore ai tempi del colera è un romanzo ottocentesco in tutti i sensi. Non solo perché per gran parte in quel secolo si svolge la storia, ma anche perché l’autore ha dichiarato più volte di averlo scritto seguendo le regole della grande narrativa del tempo. Infatti, nelle pagine di quest’opera solo di rado si cade nei magnifici baratri di realismo magico che altrove movimentano e rendono unica la narrativa di García Márquez. Siamo in presenza di un realismo ottocentesco tout court, per quanto possibile a questo autore. Sennonché ai nostri occhi questa feconda autosegregazione può segnalare che il tempo duro che stiamo vivendo non è che un tuffo nel nostro passato, utilissimo per recuperare la nostra identità profonda e perduta. Anche al di là degli inni di Mameli intonati dalle finestre con voci stentoree (pure alle partite di pallone della nazionale s’intona Fratelli d’Italia, ma quella è un’altra storia, si spera). Il virus ci impone un salto nel nostro passato, e mi pare che la gente comune, in genere, sia stata più capace di farlo, questo salto; sovente meglio di chi le sta sopra.

 

Di questo sono convinto. Sono certo che la responsabilità che la stragrande maggioranza di noi sente nei confronti della salute propria e del prossimo ci possa condurre a un ripensamento complessivo della nostra identità; e che la strada obbligata per tale ripensamento non possa che essere un rinnovato legame con la nostra identità singola e collettiva. Con il passato, dunque, che oggi più che mai è l’unica garanzia per costruire il futuro. E in ciò, se permettete, mi appello ancora una volta a García Márquez. Stavolta a quello di Cent’anni di solitudine direttamente.

 

Nella sua forma più scarna la parola assume comunque il valore di logos, di spazio dell’identità; personale e collettiva, ancora una volta

La pandemia vera, non figurata come ne L’amore ai tempi del colera, è nel capolavoro del narratore colombiano. E’ la peste dell’insonnia che coglie tutti gli abitanti di Macondo nella prima parte del romanzo (siamo ancora nel pieno dell’epopea dei fondatori e di José Arcadio Buendía). Il germe dell’insonnia lo porta una bambina senza storia né famiglia che giunge a Macondo portata da gente sconosciuta che la consegna ai Buendía con una lettera firmata da una certa Rebeca (la madre) e un sacchetto con dentro le ossa dei genitori della piccola. Rebeca sarà pure il nome che verrà dato alla bambina, e nei suoi occhi la governante di casa Buendía riconosce “i sintomi della malattia la cui minaccia li aveva costretti, lei e suo fratello, esuli per sempre da un regno millenario del quale essi erano i prìncipi. Era la peste dell’insonnia”.

 

L’effetto della malattia è, appunto, quello di mantenere svegli gli ammalati. Fisicamente, è un’insonnia non gravosa perché, pur non dormendo, nessuno si sente stanco. Tanto che, sulle prime, le ore conquistate alla notte vengono usate dagli abitanti di Macondo per svolgere i lavori più strani e abbandonati. “Quando José Arcadio Buendía si accorse che la peste aveva invaso il villaggio, riunì i capi famiglia per spiegare loro quello che sapeva sulla malattia dell’insonnia, e fu deciso di adottare delle misure per impedire che il flagello si propagasse ad altre popolazioni della palude”. Chi proprio vuole entrare a Macondo, deve mettersi dei sonagli ai piedi per stare distante dagli appestati: “Non gli si permetteva né di mangiare né di bere nulla durante il soggiorno, perché non c’era dubbio che la malattia si trasmetteva soltanto attraverso la bocca”. Un rimedio che noi conosciamo. Sennonché “la quarantena fu così efficace, che giunse il giorno in cui lo stato di emergenza fu considerato come cosa naturale”. E’ subito dopo che le cose cambiano.

 

La pandemia vera, non figurata come ne “L’amore ai tempi del colera”, è nel capolavoro del colombiano García Márquez

La peste dell’insonnia porta con sé un grave effetto collaterale: la perdita della memoria. Ma di tutta la memoria, non solo di quella relativa ai fatti personali e pubblici. Macondo rischia di perdere se stessa, la sua giovane storia, il nome dei suoi oggetti, il significato delle singole parole. “Fu Aureliano che concepì la formula che li avrebbe difesi per parecchi mesi dalle evasioni della memoria”. Inizia a porre sugli oggetti dei biglietti con i nomi relativi: tavolo, sedia, pentola, albero: “Bastava leggere le iscrizioni per riconoscerli”. Man mano che la malattia procede con la sua erosione di memoria, i biglietti si fanno più complessi: “Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte”. Ma il precipizio è lì a un passo: “Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte”.

 

Nel frattempo, José Arcadio Buendía, vulcanico e sapiente, adotta il sistema dei bigliettini anche ai concetti più complessi e trasforma le pareti delle stanze in un trattato di filosofia. Insomma, la peste di Macondo è un’occasione per fare il riassunto dell’umanità, una sorta di bilancio complessivo, un giudizio universale laico a cui sottoporre i princìpi e i valori condivisi. Siamo sempre lì: l’autentica emergenza sanitaria di Macondo (come quella solo artatamente procurata da Florentino Aziza) mette gli uomini di fronte a se stessi e alla loro identità. In un certo senso, questi personaggi si confrontano più con i loro sogni e le loro illusioni che non con le loro paure. La parola paura non serpeggia nemmeno nei romanzi di Gabriel García Márquez: la vita è una necessità che scorre per strade proprie e l’unica possibilità che abbiamo di viverla è adattarcisi. Tutt’al più, si può trascrivere su un biglietto ciò che usiamo e di cui abbiamo bisogno. E perché. E dunque l’auspicio è che ciascuno di noi non perda la memoria di questo momento duro e che, anzi, ne fissi le peculiarità su una pergamena o su un file word. Sì, come le iscrizioni della peste di Macondo, dovremmo annotare il senso di tutto questo che ci sta capitando per ricordarcelo, dopo, quando sarà finita.

 

Un’occasione per fare il riassunto dell’umanità, una sorta di bilancio complessivo, un giudizio universale laico

Il sistema di comunicazione tramite i biglietti non è una esclusiva di García Márquez, ovviamente: la letteratura è piena di trovate simili, come ne è piena l’esperienza reale. Quel che conta è il livello di comunicazione che si riesce a garantire in questo modo, ossia quel filo rosso che lega la memoria alle opportunità future. Forse qualcuno ricorderà Il mondo secondo Garp di John Irving: qui, quasi incidentalmente, ci si imbatte nel movimento delle cosiddette ellenjamesiane, vale a dire delle femministe che hanno scelto, per protesta, di tagliarsi la lingua. Il loro è un gesto che vuole denunciare la violenza subita da Ellen James, una giovane alla quale gli stupratori hanno tagliato la lingua, appunto, per impedirle di denunciare il loro crimine. Le ellenjamesiane ovviamente non rinunciano alla comunicazione ma si esprimono tramite degli infuocati bigliettini. Anche qui, come a Macondo, la parola assume un valore ultimativo e totalizzante. Nella sua forma più scarna (né gli abitanti di Macondo né le ellenjamesiane scrivono poesie sui loro bigliettini), la parola assume comunque il valore di logos, di spazio dell’identità; personale e collettiva, ancora una volta. Ed è per questo, io credo, che nella nostra auto-segregazione dovremmo annotare il maggior numero di parole possibile. Per capire, poi, quel che ci è successo.

 

Lo so qual è il problema, a questo punto. Come fa Macondo a vincere la peste dell’insonnia? Non è bello a sapersi, ora, per noialtri che – giustamente – riponiamo così tanta motivata fiducia nella scienza e nella competenza di chi ci detta le regole. Ma a Macondo la peste passa grazie alla pozione magica portata nel villaggio da Melquíades, lo zingaro divinatorio, metà sciamano metà deus-ex-machina che con le sue pergamene apre e chiude il secolo di solitudine di Macondo. Dio, insomma. Ma un dio da romanzo, perché poi la scienza di liquido conosce solo i vaccini.

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