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Storia di una collana, di velluti e del colore nero, il più elegante di tutti

Fabiana Giacomotti

Ritratto di donna detta La Velata: indagine sulla grandiosità dell'opera di Raffaello

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Per gli studiosi della moda e del costume, la straordinarietà della mostra sull’opera di Raffaello è racchiusa nella didascalia sulla collana a linea che cinge il collo del Ritratto di donna detta La Velata; più precisamente, nella suggestione che si tratti di un gioiello autentico di epoca romana classica: quarzi, di cui l’artista coglie con sapienza infinita il baluginio e il riflesso della luce e che tende ad avvalorare la teoria per la quale la bella giovane dalle forme morbide sia un’immagine ideale, frutto della meditazione dell’artista sui concetti di grazia e bellezza, e non il ritratto di Margherita Luti come suggeriva Giorgio Vasari, eccelso storyteller che però ci ha portati spesso sulla strada sbagliata. E’ infatti del tutto improbabile, e ce lo conferma anche una grande esperta e collezionista come Giovanna Frossi, che una giovane del primo Cinquecento indossasse un gioiello di epoca romana, perfino in funzione simbolica (il gusto del cosiddetto “vintage” è molto recente, mentre i gioielli “souvenir” degli anni d’oro del Grand Tour erano per l’appunto copie seguite agli scavi archeologici di Pompei).

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Per gli studiosi della moda e del costume, la straordinarietà della mostra sull’opera di Raffaello è racchiusa nella didascalia sulla collana a linea che cinge il collo del Ritratto di donna detta La Velata; più precisamente, nella suggestione che si tratti di un gioiello autentico di epoca romana classica: quarzi, di cui l’artista coglie con sapienza infinita il baluginio e il riflesso della luce e che tende ad avvalorare la teoria per la quale la bella giovane dalle forme morbide sia un’immagine ideale, frutto della meditazione dell’artista sui concetti di grazia e bellezza, e non il ritratto di Margherita Luti come suggeriva Giorgio Vasari, eccelso storyteller che però ci ha portati spesso sulla strada sbagliata. E’ infatti del tutto improbabile, e ce lo conferma anche una grande esperta e collezionista come Giovanna Frossi, che una giovane del primo Cinquecento indossasse un gioiello di epoca romana, perfino in funzione simbolica (il gusto del cosiddetto “vintage” è molto recente, mentre i gioielli “souvenir” degli anni d’oro del Grand Tour erano per l’appunto copie seguite agli scavi archeologici di Pompei).

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E’ altrettanto improbabile che l’artista, che pure aveva certamente avuto modo di ammirare e maneggiare monili classici grazie alla frequentazione di banchieri e Papi, avrebbe suggerito alla modella di farlo. La collana, come tutti i gioielli che costellano l’opera di Raffaello e a cui Silvia Malaguzzi dedica un accuratissimo saggio nel catalogo (Skira) potrebbe dunque essere un ulteriore segnale degli scopi simbolici della Velata, come peraltro l’anello cancellato dall’anulare sinistro della Fornarina parrebbe alludere alla mitologia più che alla realtà. Leggere i dipinti attraverso abiti e gioielli è particolarmente stimolante in Raffaello che, attento com’era alle convenzioni sociali e al linguaggio molto preciso di tessuti e colori, offre con ogni personaggio una chiave di lettura del gusto, dello stile e del potere che rappresentavano, con la precisione al tempo stesso didascalica e ispiratrice di un romanziere ottocentesco. Nessuno ha saputo rendere meglio di lui la morbidezza vellutata della pelliccia, la sua consistenza e il suo spessore, al punto che, osservando il ritratto di Papa Leone X, chiunque di noi potrebbe dire di conoscere, per memoria tattile, lo spessore del damasco di seta della manica della veste talare, foderata di ermellino, frutto certo dell’uso massiccio del bianco di piombo come ci dicono le note del restauro, ma anche di una conoscenza effettiva di tessuti, di tagli e di tessiture.

 

 

La stessa certezza ci viene suggerita dai diversi pigmenti e delle lacche (e perfino da scagliette di vetro!) che, nella stessa opera, compongono le molte gradazioni di rosso: il vermiglione e la lacca che rendono intellegibile il velluto, tagliato in drittofilo, della mozzetta del pontefice; i diversi passaggi che danno lucentezza alle mozzette dei cardinali, cucite nel gros de Tours che era il taffettà più spesso e resistente dell’epoca. Perfino la cucitura sulla manica della veste talare ci indica che il telaio da cui era uscito il tessuto a motivo di tralci d’edera e melagrana non doveva superare i 70 centimetri. Eppure, in questi ritratti in cui la precisione sfiora la maniacalità e in cui motivi e predilezioni si ripetono ben oltre la moda dell’epoca (basti pensare alle capigliature popolaresche femminili realizzate con le sciarpe annodate sempre alla sinistra del capo, e sempre a motivi rigati), è il ritratto più sfumato, più morbido, di impronta veneta di Baldassarre Castiglione ad emergere come il più seducente e, senza alcun dubbio, il più legato alla moda in un’ottica moderna. La camicia di lino sottilissimo arricciata dalla coulisse, il farsetto alto a nobilitare il collo e la postura, il robone in pelliccia dalle maniche gonfie e importanti (e incredibilmente tornate di moda sulle passerelle delle ultime settimane), lo scuffiotto che, pare, avesse deciso di indossare per mascherare la calvizie incipiente e forse farsi ricordare più attraente dalla moglie Ippolita, ben più giovane di lui, lo sguardo “calmo, giudizioso e sensibile” descritto da André Chastel: un’opera moderna declinata sull’intera gamma dei neri, dei bruni e dei grigi, stesi molto liberamente. “Parmi che maggior grazia abbia nei vestimenti il color nero che alcun altro (…) nel vestir ordinario”, scrive il conte ne Il Cortegiano, dato alle stampe nel 1528, cioè otto anni dopo la morte del pittore e circa quindici dalla data presumibile dell’opera, che nel secolo successivo sarebbe finita fra le proprietà del cortigiano perfetto del Seicento, il cardinale Mazzarino, e da allora rimasta in Francia. Nessuna più di quest’epoca, costruita attorno al mito dell’understatement e del greige come sinonimi di eleganza, avrebbe potuto approvare.

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