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Il rilancio della bellezza

Maurizio Crippa

La grande mostra per i cinquecento anni dalla morte di Raffaello alle Scuderie del Quirinale. Perché Raffaello è romano, perciò italiano, perciò genio universale. Occasione per riscoprire chi siamo

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Pablo Picasso era un genio dell’aforisma, gliene si attribuiscono di incerta origine, ma veritieri. Come: “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita a imparare a dipingere come un bambino”. Chissà se davvero si addice al genio ragazzino di Raffaello da Urbino, che nel breve tratto di una breve vita imparò a dipingere con la felicità di un bambino divenuto in fretta grande. Il più grande, forse. C’è un altro aforisma di Picasso citato da Sylvia Ferino Pagden, presidente del Comitato scientifico, che ci porta più vicino all’ingresso di questa mostra: “Sì, da Vinci ci ha promesso il Cielo, ma Raffaello ce lo ha dato”. Eccoci al primo gradino, inevitabile per non inciampare. Leonardo e Raffaello, sempre loro. Si è da poco concluso l’anno vinciano, con la grande mostra del Louvre, ed è già ora di celebrare come si deve – cioè scoprendolo daccapo – Raffaello, nei cinquecento anni della morte. E il confronto è lì, non detto, dietro l’angolo. Confronto tra i festeggiamenti, polemiche stupido-sovraniste a parte. Perché Raffaello è il più italiano, dunque romano, dei nostri geni e riscoprire la sua arte è il migliore modo per celebrare anche noi stessi, l’Italia. In un momento in cui c’è poco da festeggiare, ma ce n’è così bisogno. Basta mettere in fila le cose. Giovedì scorso Sergio Mattarella ha dovuto rassicurare gli italiani, spronarli. Non c’è dubbio che avrebbe preferito essere libero dall’impegno ed essere invece lì, di fronte a casa, in quello che si potrebbe chiamare il “museo del presidente”, insomma alle Scuderie del Quirinale, per il primo giorno di apertura della mostra “Raffaello 1520 - 1483”. La più grande mai realizzata sull’Urbinate, un evento di cultura come da molto tempo non si vedeva in Italia e nella capitale. Un motivo d’orgoglio e l’occasione di alzare la testa, scommettere sulla resurrezione dell’arte e della bellezza. Un rilancio anche simbolico nel nome della creatività, della luminosità di un artista che ha costruito nei secoli il canone della bellezza. Il tutto con l’impegno di una produzione pubblica che sarebbe riduttivo definire soltanto “statale”, perché è invece la dimostrazione di cosa sia un servizio pubblico. Le Scuderie del Quirinale sono infatti gestite da Ales, società in house del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo che lavora per la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, “il mio orgoglio per questa mostra è che non è solo una raccolta di bei quadri, non è un blockbuster, ma ha un contenuto scientifico, di approfondimento. Chi la vede può imparare, questo è fare un servizio per il pubblico”, ci dice Mario De Simoni, amministratore delegato di Ales, davanti al magnifico arazzo (uno dei sette realizzati) per la Cappella Sistina e giunto dal Vaticano. Inoltre, la mostra è coprodotta con le Gallerie degli Uffizi perché, come ci dice il direttore Eike Schmidt, incastonato tra la (sua) Madonna del Granduca e la Madonna Tempi che torna da Monaco di Baviera per la prima volta dopo secoli, “non aveva senso dividere le forze, l’ho subito pensato. Raffaello non è di Urbino, non è di Firenze, non è di Roma ma è soprattutto di Roma, cioè è dell’Italia e del mondo. Era giusto unirci”. Una mostra che nasce a Roma, dunque italiana e perciò universale. “Raffaello morì a Roma, ed è a Roma che deve la sua fama universale”, dice Sylvia Ferino-Pagden: “La mostra principale del quinto centenario della sua morte non poteva perciò svolgersi altro che a Roma. Nella città che fu dei Papi, della Curia, dei finanzieri pontifici, degli umanisti, dei letterati”. Un’esperienza bruciata in fretta – sono soltanto dodici, dal 1508 al 1520, gli anni romani di Raffaello, ci arrivò a venticinque anni, già stella di prima grandezza della pittura. Ma senza questa esperienza “non sarebbe diventato il venerato artista che oggi il mondo intero si appresta a celebrare”.

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Pablo Picasso era un genio dell’aforisma, gliene si attribuiscono di incerta origine, ma veritieri. Come: “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita a imparare a dipingere come un bambino”. Chissà se davvero si addice al genio ragazzino di Raffaello da Urbino, che nel breve tratto di una breve vita imparò a dipingere con la felicità di un bambino divenuto in fretta grande. Il più grande, forse. C’è un altro aforisma di Picasso citato da Sylvia Ferino Pagden, presidente del Comitato scientifico, che ci porta più vicino all’ingresso di questa mostra: “Sì, da Vinci ci ha promesso il Cielo, ma Raffaello ce lo ha dato”. Eccoci al primo gradino, inevitabile per non inciampare. Leonardo e Raffaello, sempre loro. Si è da poco concluso l’anno vinciano, con la grande mostra del Louvre, ed è già ora di celebrare come si deve – cioè scoprendolo daccapo – Raffaello, nei cinquecento anni della morte. E il confronto è lì, non detto, dietro l’angolo. Confronto tra i festeggiamenti, polemiche stupido-sovraniste a parte. Perché Raffaello è il più italiano, dunque romano, dei nostri geni e riscoprire la sua arte è il migliore modo per celebrare anche noi stessi, l’Italia. In un momento in cui c’è poco da festeggiare, ma ce n’è così bisogno. Basta mettere in fila le cose. Giovedì scorso Sergio Mattarella ha dovuto rassicurare gli italiani, spronarli. Non c’è dubbio che avrebbe preferito essere libero dall’impegno ed essere invece lì, di fronte a casa, in quello che si potrebbe chiamare il “museo del presidente”, insomma alle Scuderie del Quirinale, per il primo giorno di apertura della mostra “Raffaello 1520 - 1483”. La più grande mai realizzata sull’Urbinate, un evento di cultura come da molto tempo non si vedeva in Italia e nella capitale. Un motivo d’orgoglio e l’occasione di alzare la testa, scommettere sulla resurrezione dell’arte e della bellezza. Un rilancio anche simbolico nel nome della creatività, della luminosità di un artista che ha costruito nei secoli il canone della bellezza. Il tutto con l’impegno di una produzione pubblica che sarebbe riduttivo definire soltanto “statale”, perché è invece la dimostrazione di cosa sia un servizio pubblico. Le Scuderie del Quirinale sono infatti gestite da Ales, società in house del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo che lavora per la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, “il mio orgoglio per questa mostra è che non è solo una raccolta di bei quadri, non è un blockbuster, ma ha un contenuto scientifico, di approfondimento. Chi la vede può imparare, questo è fare un servizio per il pubblico”, ci dice Mario De Simoni, amministratore delegato di Ales, davanti al magnifico arazzo (uno dei sette realizzati) per la Cappella Sistina e giunto dal Vaticano. Inoltre, la mostra è coprodotta con le Gallerie degli Uffizi perché, come ci dice il direttore Eike Schmidt, incastonato tra la (sua) Madonna del Granduca e la Madonna Tempi che torna da Monaco di Baviera per la prima volta dopo secoli, “non aveva senso dividere le forze, l’ho subito pensato. Raffaello non è di Urbino, non è di Firenze, non è di Roma ma è soprattutto di Roma, cioè è dell’Italia e del mondo. Era giusto unirci”. Una mostra che nasce a Roma, dunque italiana e perciò universale. “Raffaello morì a Roma, ed è a Roma che deve la sua fama universale”, dice Sylvia Ferino-Pagden: “La mostra principale del quinto centenario della sua morte non poteva perciò svolgersi altro che a Roma. Nella città che fu dei Papi, della Curia, dei finanzieri pontifici, degli umanisti, dei letterati”. Un’esperienza bruciata in fretta – sono soltanto dodici, dal 1508 al 1520, gli anni romani di Raffaello, ci arrivò a venticinque anni, già stella di prima grandezza della pittura. Ma senza questa esperienza “non sarebbe diventato il venerato artista che oggi il mondo intero si appresta a celebrare”.

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Un evento di cultura come da molto tempo non si vedeva, per mano pubblica. Occasione di alzare la testa, ce n’è molto bisogno

E’ ora di entrare in questa mostra costruita à rebours: 1520-1483. Che si apre con quadri che illustrano la sua morte precoce (quindici giorni di una febbre improvvisa inspiegabile incurabile, tu guarda le coincidenze) e i suoi funerali che commossero il mondo. E con una splendida ricostruzione ad alta tecnologia della sua tomba al Pantheon. Ci sono due ritratti senza i quali questa mostra non avrebbe potuto essere realizzata, o avrebbe avuto un altro e minore significato. Non a caso, nell’intelligente regia dei curatori – Marzia Faietti e Matteo Lanfranconi con Francesco P. Di Teodoro e Vincenzo Farinella – sono posti nella seconda stanza, subito dopo la cerimonia degli addii. Quello di Baldassare Castiglione e quello di Papa Leone X. Due “capi d’opera”, è da qui che inizia il viaggio. Il Ritratto di Baldassarre Castiglione (1513), prestito prezioso del Louvre, è un miracolo di gioco di colori, pochi colori. Un calembour di ton sur ton. Tutti quei marroni, tortora, neri e grigi illuminati da due zaffiri luminosi, gli occhi. La calma, la sapienza, la bellezza come risultati di una profonda vita interiore e di un sentirsi a proprio agio nel mondo, al centro del mondo, come ogni uomo del Rinascimento. Castiglione di Raffaello fu precoce ammiratore e poi intimo amico. Fu il codificatore dell’ideale cortigiano inteso come armonia di cultura, privilegio, saggezza, bellezza. Non un artista, oggi lo definiremmo ahinoi un organizzatore culturale, così come qualche decennio fa l’avremmo detto un intellettuale organico. Un (neo) pagano rinascimentale, a tutti gli effetti. Seppure, in tarda età e vedovo, si fece prete in tempo per divenire nunzio apostolico. Tutto questo non gli impedì, ovviamente, di essere amico dei Papi e cardinali, di Papa Medici in particolare. L’altro ritratto è appunto quello di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi (1518-1519), arrivato dagli Uffizi, che invece è pieno di innumerevoli rossi da non poterli quasi contare. E che presenta, al primo sguardo, più che un santo vicario di Cristo un riflessivo umanista, qual era, ma anche un uomo di potere consapevole di esserlo, e di dover gestire una partita prima politica e poi spirituale. Eppure, al Papa umanista figlio di Lorenzo il Magnifico e secondo Vasari iniziatore dello splendore dei pontificati, al sovrano romano che lo valorizzò ancor più di Giulio II che lo aveva chiamato a Roma, Raffaello e Baldassare Castiglione scriveranno una lettera, nel 1519. O per meglio dire il letterato sarà l’estensore dei pensieri che il pittore, digiuno di studi umanistici (al pari di Leonardo, al pari di Michelangelo: la strada d’accesso all’arte era allora la bottega, non l’accademia, dipingere o scolpire erano forme di un artigianato che si avviava verso i metodi di una produzione industriale) non avrebbe saputo scrivere. La lettera al Papa è in mostra come il documento cartaceo, la prova d’archivio, di un triangolo ideale: “Non debba adunque, Padre Santissimo, essere tra gli ultimi pensieri di Vostra Santitate, lo aver cura che quello poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana (…) non sia estirpato e guasto dalli maligni e dagli ignoranti”. La perorazione a Papa Leone è dunque una lettera d’intenti, che racchiude la visione e il lavoro di un Raffaello non soltanto pittore, architetto, urbanista – in mostra c’è la bellissima Pianta di Roma antica che l’artista realizzò utilizzando metodi e strumenti d’avanguardia – cultore raffinato delle antiche vestigia che tanto influenzeranno anche i suoi dipinti. Raffaello ricorda con “molta compassione” che bisognava non soltanto abbellire Roma di affreschi chiese e ritratti, ma investire (il verbo è moderno, ma il significato di ogni epoca) per lo studio delle antichità, per gli scavi, per i restauri. Scrive Castiglione: “Quello poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana (…) non sia estirpato e guasto dalli maligni e dagli ignoranti”. Del resto erano tempi duri, era l’anno 1519, l’anno in cui il ducato di Milano finiva ai Francesi e il regno di Napoli alla Spagna (Franza o Spagna), gli anni in cui messer Guicciardini andava annotando i suoi pessimistici aforismi politici sull’Italia. Un ideale alto, compiutamente rinascimentale ma anche un programma di modernizzazione del papato e della città. Un programma che Papa Leone – non fosse che tutte queste idee di artisti alla fine per lui erano soltanto fonti di spesa, e in Germania imperversava quel monaco agostiniano che urlava contro la vendita delle indulgenze e la simonia – probabilmente condivideva. Soltanto che il loro destino terreno avrebbe deciso diversamente, da lì a poco. Raffaello morì, a soli trentasette anni. Papa Leone, che lo aveva più d’altri valorizzato ed era forse pronto, casse permettendo, a mettergli nelle mani i “beni culturali” della città, gli voleva bene e ne fu terribilmente sconfortato. Sarebbe morto un anno e mezzo dopo, all’inizio del dicembre 1521. Castiglione riparò a Madrid, come nunzio, fece in tempo a immalinconirsi in Spagna e a vedere il Sacco di Roma del 1527. Fino alla morte a Toledo, nel 1528.

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L’aforisma di Picasso: “Sì, da Vinci ci ha promesso il Cielo, ma Raffaello ce lo ha dato”. Sarà del tutto vero per descrivere il genio?

Ma nella mostra, il significato di quella lettera, e le idee e le ambizioni condivise da quel trio di ritratti e ritrattista, e l’importanza di quel lavoro sulla storia e l’arte classica per il futuro della cultura europea balzano agli occhi da ogni disegno, da quanto dipinto. Strano che la necessità di riunire in quella stanza Baldassarre Castiglione, Papa Leone e Raffaello non sia balzata agli occhi di chi voleva bloccare il breve viaggio di un’opera da Firenze a Roma. Le mostre belle aiutano a capire. Questa insistenza sul (meno noto al pubblico) Raffaello studioso dell’antichità classica, la sua romanità, è il cuore concettuale della mostra. La cosa non è di poco conto, perché permette di capire, tralasciando le annotazioni puramente giornalistiche, perché questa celebrazione cinquecentenaria di Raffaello sia un prezioso aiuto al presente italiano. Perché aiuta chi la vede a togliere dalla cartolina il pittore delle splendide armonie e dei colori, come fosse il primo dei romantici, tuttora diffusa persino nelle scuole. E di capire l’ambizione della sua attenzione alla forma, alla costruzione di un universo ideale. Si trattava, nel pensiero e nell’opera di Raffaello, di trasformare la città che era dei Papi, di ricreare l’immagine armonica di una Roma terrena e ultraterrena, ma pur sempre (soprattutto forse) eterna e culla della civiltà. Di questo scriveva con Baldassare, in quel 1519 in cui Cortez the killer partiva alla conquista del Messico e nessuno, nemmeno il Papa, poteva immaginare che quel mondo e quei sogni stavano per cambiare per sempre.

 

Il Papa Giovanni de’ Medici non era soltanto l’umanista appassionato d’arte tramandato dalla chiusa della sua lettera al fratello Giuliano, “poiché Dio ci ha dato il Papato, godiamocelo”. In quel quadro tutto rossi ci sono altri simboli sapienti che Raffaello dissemina, lui così abituato a trattare anche la materia sacra e scritturale, non solo con le sue Madonne ma anche altre ad alto contenuto teologico, come l’Estasi di Santa Cecilia.

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I ritratti di Baldassarre Castiglione e Papa Leone X come chiavi di lettura della mostra e di Raffaello cultore della classicità

Leone X ha appena sollevato gli occhi da una Bibbia, ha una lente d’ingrandimento in mano: non significa soltanto che è un connoisseur di libri antichi – il manoscritto che ha davanti non è inventato a caso, Raffaello era maniaco dei dettagli, ma un codice miniato conservato tutt’oggi a Berlino – ma che è anche il connoisseur unico autorizzato delle Scritture. E’ 1518, l’anno prima Lutero aveva appeso in Turingia le sue Tesi contro la Chiesa di Roma e si stava per imbarcare nell’impresa di tradurre la Bibbia in tedesco. E di stamparla con quella (infernale) macchina della modernità inventata da Gutenberg che avrebbe regalato a ogni fedele la possibilità di interpretare da solo la parola di Dio. La Bibbia è aperta alla pagina in cui inizia il Vangelo di Giovanni, il nome di battesimo di Leone. Rendere gloria al Papato e a Roma e rendere gloria a Dio è sempre stato un tutt’uno, per il grande artista. 

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Poi si sale la scala a chiocciola per il secondo piano delle Scuderie – non prima di aver visto una messe di opere e disegni magnifici, il grande arazzo della Sistina esposto a fianco del suo cartone preparatorio. Il cartone del Sacrificio di Listra è proprietà della regina d’Inghilterra al Victoria and Albert Museum. Quello esposto è così perfetto da ingannare, ma non è l’inamovibile originale, ovviamente: è un’opera di ingegno modernissima, una scansione digitale poi stampata.

 

La “Fornarina”, la “Velata”. Fu “persona molto amorosa e affezionata alle donne, e di continuo preso ai servigi loro” (Vasari)

Ma è al secondo piano che si fa l’incontro con le opere che di Raffaello hanno costruito la fama più universale, duratura e alla fine anche un po’ sdolcinata, le sue donne e le sue Madonne, che produceva a raffica fin dai tempi fiorentini e che a Roma distribuiva per la lavorazione a decine di artisti e aiutanti della sua bottega. Si entra e ci sono le sue due donne per antonomasia, la Fornarina oggi a Palazzo Barberini e la Velata. Su chi fosse la Fornarina sono note le leggende, ma la verità è che probabilmente sia lei sia soprattutto la Velata conservata a Palazzo Pitti sono entrambe idealizzazioni, figure ipostatizzate di un canone di bellezza femminile – fissato nella mente dell’artista ma anche irresistibilmente agganciato al presente – che è stata un’ossessiva ricerca di Raffaello e che ha determinato un canone valido e imitato per secoli. Non è un caso che Raffaello – “persona molto amorosa e affezionata alle donne, e di continuo preso ai servigi loro” (Vasari) – si sia dilettato anche di scrivere sonetti amorosi, ispirandosi a Petrarca: che a sua volta fu fondatore di un canone astratto e angelicato della donna che ha resistito, nella poesia europea, fino all’Ottocento. A causa di quei “diletti carnali”, Raffaello “fu dagli amici rispettato e compiaciuto”. Ma questa sua ricerca idealizzata della perfezione gli guadagnarono in vita, e soprattutto in morte, la nomea di pittore dell’armonia e della bellezza senza difetto, eterea, ispirata ai classici (o al Cielo, direbbe Picasso). Genio precocissimo, a soli ventuno anni firma il primo capolavoro, lo Sposalizio della Vergine che è rimasto a Brera e che fece perdere la bussola al suo mastro, il bravo Perugino, il quale negli stessi anni ne stava dipingendo uno suo, all’apparenza identico nella concezione ma per nulla simile nell’esito finale. Umbria e Marche gli stavano già strette, quello stesso anno se ne andrà a Firenze per vedere da vicino Leonardo e Michelangelo, per imparare dai grandi del passato, Masaccio, Donatello. Ci rimarrà quattro anni, il tempo di sfornare qualche capolavoro, di incontrare Leonardo e diventare un beniamino di casa Medici. E a venticinque anni, è già a Roma, con la nomea di supremo “pittore di Madonne” ed eccelso ritrattista.

 

Inquietudini oltre la dolcezza. Lo sguardo intimamente doloroso della “Madonna d’Alba”, oggi conservata alla National Gallery

Una grande mostra è sempre un’occasione per riaprire gli occhi, uscire dall’orizzonte di quello che si sa già. Per Raffaello vale ancora di più. Il fulcro dell’esposizione alle Scuderie è spiegare il decisivo rapporto con la classicità romana. Ma c’è un altro aspetto, che la mostra privilegiando una filologia storico-critica affronta di meno. E’ la necessità di superare un’immagine riduttiva di Raffaello cristallizzata come in un ritratto bidimensionale. Maestro della bellezza classicheggiante, il genio di Urbino ha goduto di un successo secolare che l’ha a poco a poco confinato nel limite di un perfettismo fuori dalla storia, di un mondo idealizzato. Dell’Armonia, con la maiuscola. Una cornice che gli sta un poco stretta, come hanno notato da tempo alcuni artisti e critici. Per gli occhi non specialisti, basta osservare da vicino lo sguardo malinconico, quasi allarmato, della Fornarina. Oppure lo sguardo intimamente doloroso della Madonna d’Alba, oggi conservata alla National Gallery di Washington. E’ seduta a terra di sbieco mentre guarda san Giovannino che, come in un gioco, regala una croce al Bambino. A suo figlio. Bastano gli sguardi pensierosi dei ritratti maschili. E si intuisce l’incrinatura di un dramma sotto la patina di perfezione. Lo aveva notato un grande critico, di temperamento tutt’altro che raffaellesco, Giovanni Testori, in un articolo del Corriere della Sera in occasione della importante mostra fiorentina per i cinquecento anni della nascita dell’artista. “Non crediamo sia possibile offrire oggi una qualunque reale proposta d’interpretazione di Raffaello – scriveva – senza strapparle di dosso il velo d’una falsità patente, eppure sempre accettata e caldeggiata, quasi potesse pensarsi che tale grandezza sia riducibile a una patina o a una pellicola di armonia. La verità è che il sublime raffaellesco risulta contesto di quelli che, nei termini canonici, si chiamano errori: la sua perfezione, d’imperfezioni”. Testori le indica in dettagli “che solo i nostri preconcetti possono aver impedito fin qui di cogliere”, come “le proporzioni-sproporzionate delle dita; i colli troppo larghi e torniti; i ventri ampi come cerchi dei Gesù Bambini… l’urgere dei gomiti e dei polpacci…”. Dettagli, a volte intuizioni, che al critico lombardo servono soprattutto per dare corpo a un allarme, o meglio per ritrovare un allarme di significati, di tensioni, che nei quadri di Raffaello restano vivi, oltre la pacificata cornice del tempo e della gloria.

 

Soltanto la lunga vita di Michelangelo, un prodotto quasi sovrumano di forza fisica di tigna caratteriale, impedirà il sogno di raccogliere in una manciata di stagioni la celebrazione del trio dei più grandi: per Buonarroti si dovrà attendere il 2064. La celebre rivalità tra Raffaello e Michelangelo non era soltanto causata dagli stili di vita e di lavoro, tra un uomo di mondo capace di gestire la sua cerchia e i suoi committenti e un artista anarcoide e passionale, mai pacificato, che preferiva lavorare con pochi e fidati collaboratori. La rivalità tra lui e Raffaello è anche, forse, nel segno di quella imperfezione tenuta a bada, quella tensione a tratti quasi religiosa, come un dramma segreto. Nell’Autoritratto con amico del Louvre si raffigura con la barba, una figura cristica come è stato notato, mentre mette la mano sulla spalla del compagno in un gesto di infinita malinconia. Quasi fosse un presentimento, pochi mesi prima della fine della sua vita terrena.

 

La necessità di riscoprire Raffaello togliendolo dalla patina di una Armonia e di un perfettismo divenuti un po’ da cartolina

Ci sono due opere, anzi sono la stessa opera, che non potevano essere qui. La scuola di Atene e il suo cartone preparatorio, miracolosamente conservato, che è alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano e da poco tempo è esposto in un nuovo, eccellente allestimento creato dallo studio di architettura Boeri. Affresco e cartone raccontano una storia che svela molto di Raffaello. Le due opere sono pressoché identiche, al millimetro. Ma il cartone ha una differenza sorprendente. Nel disegno preparatorio, davanti allo spazio vuoto verso cui avanzano Platone e Aristotele c’è, appunto, un vuoto. Nell’affresco, quel vuoto si è miracolosamente riempito di una presenza: un uomo con la barba, corrucciato, in abiti non paludati, da lavoro. E’ Michelangelo. Racconta la storia che, mentre i due lavoravano a pochi muri di distanza nel palazzo vaticano, Raffaello all’appartamento pontificio e Michelangelo nella Cappella Sistina, la rivalità li teneva distanti. Sospettoso e scontroso, Michelangelo non lasciava entrare nessuno a sbirciare l’opera sua. Ma giunto a metà del lavoro aveva dovuto partire per Firenze. Durante l’assenza, Raffaello ottenne dal suo amico e protettore Bramante, capo dei cantieri vaticani, di poter entrare e salire sui ponteggi, di nascosto. Lui stava creando l’immagine perfetta di una concezione greco-cristiana del mondo – il dito al Cielo e quello alla terra (Picasso che direbbe?) – e a pochi passi da lui, assai meno pacificato, Michelangelo squassava il paradiso e l’inferno, faceva incrociare quelle due dita come un generatore di Van de Graaf in grado di far scoccare la scintilla della storia umana. Fu tale l’impressione ricevuta, che Raffaello corse a riaprire il cantiere del suo affresco e tributò lì, nello spazio rimasto vuoto, l’omaggio al genio rivale. Con molto fair play. ma anche un implicito riconoscimento che la tensione incompiuta del Rinascimento, lo stigma di un’imperfezione insoddisfatta, è ciò che genera la vera armonia. Così universale, perciò italiana.

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