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Alla ricerca dell’io perduto

Nadia Terranova

Ci si può riconoscere allo specchio, o attraverso l’altro. Viaggio di Roberto Andò nell’isolamento impossibile

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"I due Menecmi” è il titolo di una commedia di Plauto del terzo secolo a. C. Racconta le peripezie di due gemelli, divisi da piccoli: il padre, un mercante di Siracusa, portò al mercato di Taranto uno dei due e, nella ressa, lo smarrì. Il bambino fu trovato da un tale di nome Epidamno che lo adottò legittimamente, mentre il padre biologico morì di dolore e il nonno diede al gemello superstite lo stesso nome di quello smarrito. Una volta diventato grande, Menecmo II si mise alla ricerca di Menecmo I, perché era cresciuto con dentro l’idea di ricomporre il puzzle, con davanti un futuro che avrebbe dovuto coincidere con questa parola: ricongiungimento. Bisogna tenerla a mente come una delle parole segrete di un romanzo, Il bambino nascosto, di Roberto Andò (La nave di Teseo), che sta in una galassia di storie fra cui quella di Plauto, fondativa di uno fra i più strutturali temi della letteratura, quello del doppio, dell’alterità come pezzo mancante, proiezione, alter ego e opposto. Da Plauto (e poi Shakespeare e Goldoni, autori rispettivamente della Commedia degli errori e I gemelli veneziani, altre due pièce che hanno come protagonisti i gemelli, e quindi ripropongono la più eclatante messa in scena della doppiezza) fino all’Amica geniale, dal Grande Gatsby al Dottor Jekyll e mister Hyde, dal Ritratto di Dorian Gray al Compagno segreto, un robusto filone di grandi narrazioni racconta il riconoscimento di sé attraverso l’altro, quel guardarsi-specchiarsi che, per osmosi e dissonanze, dice soprattutto che la conoscenza è un viaggio, un processo, come l’amore. L’altro, più che nascere da me, si distacca da me come un arto amputato; oppure: l’altro sono io, sono sempre stato io, e scoprirlo è destabilizzante; oppure: credevo di essere io, invece questo pezzo di me mi sta lasciando o divorando come una scheggia.

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"I due Menecmi” è il titolo di una commedia di Plauto del terzo secolo a. C. Racconta le peripezie di due gemelli, divisi da piccoli: il padre, un mercante di Siracusa, portò al mercato di Taranto uno dei due e, nella ressa, lo smarrì. Il bambino fu trovato da un tale di nome Epidamno che lo adottò legittimamente, mentre il padre biologico morì di dolore e il nonno diede al gemello superstite lo stesso nome di quello smarrito. Una volta diventato grande, Menecmo II si mise alla ricerca di Menecmo I, perché era cresciuto con dentro l’idea di ricomporre il puzzle, con davanti un futuro che avrebbe dovuto coincidere con questa parola: ricongiungimento. Bisogna tenerla a mente come una delle parole segrete di un romanzo, Il bambino nascosto, di Roberto Andò (La nave di Teseo), che sta in una galassia di storie fra cui quella di Plauto, fondativa di uno fra i più strutturali temi della letteratura, quello del doppio, dell’alterità come pezzo mancante, proiezione, alter ego e opposto. Da Plauto (e poi Shakespeare e Goldoni, autori rispettivamente della Commedia degli errori e I gemelli veneziani, altre due pièce che hanno come protagonisti i gemelli, e quindi ripropongono la più eclatante messa in scena della doppiezza) fino all’Amica geniale, dal Grande Gatsby al Dottor Jekyll e mister Hyde, dal Ritratto di Dorian Gray al Compagno segreto, un robusto filone di grandi narrazioni racconta il riconoscimento di sé attraverso l’altro, quel guardarsi-specchiarsi che, per osmosi e dissonanze, dice soprattutto che la conoscenza è un viaggio, un processo, come l’amore. L’altro, più che nascere da me, si distacca da me come un arto amputato; oppure: l’altro sono io, sono sempre stato io, e scoprirlo è destabilizzante; oppure: credevo di essere io, invece questo pezzo di me mi sta lasciando o divorando come una scheggia.

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L’altro, più che nascere da me, si distacca da me come un arto amputato; oppure: l’altro sono io, sono sempre stato io

Nel Bambino nascosto, lo sguardo è un’inquietudine e la monade del doppio è scissa tra un bambino e un adulto. E’ la storia di Gabriele Santoro, insegnante del conservatorio che vive a Napoli, nel quartiere di Forcella, in una casa da solo, e ogni mattina sceglie una poesia da recitare mentre si fa la barba. Declamare versi a memoria, aveva sentito dire da un medico a cena, serve a mettere in moto recettori simili alla dopamina, con preziose conseguenze sull’umore della giornata; forse quel dottore stava solo cercando di sedurre una commensale, ma la “spericolata intimità” esumata da una poesia di Kavafis non può che liberare energie, così, quando quel rito viene interrotto dal citofono (un “suono greve e straziato”, anti-armonico come la punta acuminata di un dolore) e l’uomo apre la porta al corriere che deve consegnargli uno spartito, tra il presagio della musica di Schumann e la limpida esattezza del poeta greco, la conversazione di Santoro con sé stesso si raggruma fino a un nucleo essenziale: “Ribellarsi al ricatto del tempo, un obiettivo che si poteva raggiungere solo mantenendosi al riparo dagli obblighi, vivendo come se si fosse già scomparsi”. Con vite diverse e altezze diverse, i protagonisti di questo libro sono entrambi scomparsi, a sé o agli altri, e sono in procinto di ricomparire.

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In una crepa del tempo, approfittando di una frattura, scivolando dentro un errore distratto, come Peter Pan nella stanza di Wendy, John e Michael, un bambino entra a casa di Gabriele Santoro. E’ una creatura di dieci anni, bruna di capelli e di occhi, chiara di pelle, intensa, inarrestabile e composta, una creatura eterna nelle sembianze e contemporanea nella voce: parla un napoletano disarmante (e disarmante è la purezza con cui Andò lo rende sulla pagina), si chiama Ciro, è figlio di un camorrista ed è in fuga. Come predetto dal titolo, è un bambino nascosto, ma ancora più appropriato è il gerundio: un bambino che va nascondendosi. Si muove come un fantasma dietro il divano quando, diverse ore dopo, Santoro ne scopre la presenza, e da allora cerca di acciuffarne l’anima, come i bambini con l’ombra di Peter Pan; nell’avventatezza con cui un uomo cerebrale come Gabriele sceglie di trattenere quella creatura selvatica c’è tutta la frattura del suo essere diventato adulto. La diversità di sintassi è la forma scelta da Andò per far esperire al lettore la scissione: la lentezza ricercata della poesia, dei riti, dei gesti, dei pensieri che fluiscono nel cervello, fa da contraltare alla voce del bambino, da cui emerge una visceralità morfologica densa di storia e mitologia, un’ostinata lavica imprudenza, un’incontenibilità eletta a metro di una città intera. Ciro Acerno, figlio di Carmine, è il genius loci delle strade partenopee: incarna l’occhio del testimone corrotto e innocente insieme, come lo è la pletora di tutti gli occhi della città.

  

Mentre per il mondo di fuori Ciro è il bambino sparito, la prospettiva dell’autore è un faro acceso su questa sparizione

Deve passare del tempo perché Ciro decida di raccontare a Gabriele cosa ha visto, cosa ha fatto, da cosa fugge. Un’altra parola nascosta di questo libro è: fiducia. Spiarsi e ritrarsi, provocarsi e avvicinarsi: Gabriele e Ciro, chiusi nella stessa casa, diventano qualcosa di diverso. Il doppio è modificante, e se il bambino che si allontana, nell’ultima pagina, è un addio all’infanzia, anche l’adulto che lasceremo andare non sarà più lo stesso. Per arrivare a quel traguardo, è servita tutta la poesia di cui avevamo bisogno: non solo Il bambino nascosto è un omaggio a Konstantinos Kavafis, i cui versi sono in esergo a ogni capitolo e disseminati in tutta la storia, ma la poesia compare in sostituzione della memoria e della razionalità, viene in soccorso quando tutto manca. Ci sono Alba Donati, poetessa “dal nome luminoso” e T. S. Eliot, ma anche i Doors, Elias Canetti e una rivelatrice Anna Maria Ortese: “Temo di non aver mai visto Napoli, né la realtà in genere”. L’occhio che guarda è quello interiore; l’anima della città è dappertutto, Napoli non è un tema quanto piuttosto l’essenza degli oggetti, l’arretrare dei pensieri, l’audacia delle scelte, è il movimento duplice del passo allegro, in avanti, e della sparizione come dissolvimento. Mentre per il mondo di fuori Ciro è il bambino sparito, la prospettiva dell’autore è un faro acceso su questa sparizione, e il romanzo un monumentale palco retroverso, una visione pubblica dietro le quinte: cosa succede nelle case, dietro le finestre sfuggenti di facciate barocche, in una città dove tutti stanno sempre per strada? Come cambiano i rumori, gli strepiti che si fanno bisbigli, le relazioni e gli strappi fra le persone? A un certo punto, passano per strada due cani che sembrano uomini: “La postura del loro volto era accigliata, saggia, come se portassero un invisibile paio di occhiali. Avevano entrambi l’espressione di chi ne ha viste tante e sa distinguere il bene dal male”. A saperli vedere, ci sono fantasmi ovunque, per le strade di Napoli, o forse nell’animo di Gabriele Santoro. E’ così umano, quest’uomo che ogni tanto sente il bisogno di fermarsi perché la realtà è troppo chiassosa, e di cercare un’altra velocità nel ritmo alieno della poesia. La poesia non segue il tempo, lo inventa. Come preannunciato dai primi pensieri del protagonista, ancora una parola nascosta in tutta il romanzo è: tempo. Quante parole nasconde quel bambino con sé.

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Nel “Bambino nascosto” lo sguardo è un’inquietudine e la monade del doppio è scissa tra un bambino e un adulto

“La vita si osserva molto meglio da una finestra sola”, scrive a un certo punto Fitzgerald nel Grande Gatsby, e nel Bambino nascosto Gabriele e Ciro sono uno la finestra dell’altro, sono gli occhiali nuovi da indossare per vedere sé stessi nello sciame umano, per vedere i palazzi e le scale, le auto e le moto, i delitti, l’orgoglio inaspettato, le abitudini cresciute nella solitudine. A quella finestra Gabriele impara che la disobbedienza può essere una nobile fedeltà, e Ciro che la sfrenatezza non è la migliore espressione della libertà. Ci si aspetterebbe un processo del genere: il bambino cresce e l’adulto torna bambino, ma la realtà più interessante e spinosa è che Gabriele, disobbedendo, diventa un adulto mentre Ciro, limitato dai confini di una casa estranea, può finalmente essere bambino. Essere la finestra l’uno dell’altro li trasforma in ciò che sono.

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Il bambino nascosto, come i romanzi psicologici in cui l’oggetto di indagine è la consistenza dell’umano, ha qualcosa del giallo, e la sua forza sta anche nel fatto che vogliamo sapere quale sia il segreto dell’uno, e poi dell’altro, e poi ancora di tutti i personaggi che ruotano intorno ai due, e non ci diamo pace fino alla fine, finché non l’avremo scoperto. Nella vita di Gabriele c’è un universo familiare complesso: un compagno da cui si è separato, un fratello con cui il dialogo è difficile, un padre insegnante come lui. E’ una storia di uomini e di solitudini, questa: l’amore non è una parola ma un gesto, come quando Gabriele si accorge, abbracciandolo, che il bambino puzza, e che da quando si è nascosto a casa sua non si è lavato nemmeno una volta. Aprire il rubinetto della vasca significa lavar via le incertezze, i dubbi, e anche il passato, e se l’acqua è troppo calda meglio così, si laveranno con più forza, come un’espiazione. “Quando si era diplomato al conservatorio, il maestro aveva comunicato ai genitori che si sarebbe trasferito nell’appartamento di Forcella, e il padre gli aveva chiesto quali colpe volesse espiare”: solo verso la fine, Roberto Andò rende meno ombroso l’autolesionismo del suo protagonista. Ci sono molti modi per farsi del male, il più silenzioso è mettersi in disparte, magari in una situazione di precarietà e pericolo. Così, anche la prima scena assume un senso diverso: di nulla di ciò che gli accade, possiamo dire che Gabriele Santoro non se lo sia andato a cercare. Non c’è nulla di innocente in un uomo che porta la sua solitudine a Forcella, perché nessuno è al riparo, non ci sono case che ti proteggano davvero, non ci sono case in cui la guerra non finisca per entrare. Questa è la storia della guerra privata di un uomo, un uomo che usava la cultura come un bastione, che si era illuso che la poesia, la musica, i libri fossero un isolamento. E’ la vertiginosa storia di una scoperta, dentro sé e attraverso un congiungimento con il radicalmente altro: la scoperta che in molti prodigi può riuscire l’uomo, tranne in quello di non essere compromesso dalla società.

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