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La Bestia degli scrittori

Simonetta Sciandivasci

Non solo quella di Salvini. Anche nella bolla editoriale online si usa il metodo populista. Catalogo di insulti

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La Bestia di Salvini dilaga e arriva dritta al cuore, come un cioccolatino. E’ un contagio, un’epidemia, e allora ospedalizziamola, come orrendamente usa dire, e chiamiamola BdS. La BdS ammala ma non uccide, colonizza ma non abbatte, trasmette ma non trasforma. E’ un proselitismo che non bussa ed entra sicuro, anche dove le porte sono chiuse, sbarrate. Perché vale per Salvini e la sua bestia ciò che valeva per Berlusconi, e cioè quel paradosso, quella spaccatura che Giorgio Gaber espresse così bene dicendo che non temeva Berlusconi in sé, ma “il Berlusconi in me”. La BdS è in noi? Lo è, e se siamo nati prima noi o prima lei è facile da dire: prima noi, perché è osservando noi, e poi massimizzando e deformando quello che siamo, che è stata messa a punto. La BdS non è un punto di non ritorno, ma un punto di non creazione, cioè di generazione. Questo conta nella misura in cui ci permette di vedere e poi ammettere che i movimenti tra la Bestia e noi sono la continuità, la contiguità, la sconfitta, l’assorbimento. Conta per capire per l’ennesima volta, quindi confermare, che le origini del male sono sempre molto, molto plurali e molto, molto condivise. Conta perché dimostra che, in definitiva, l’allarme mostro non funziona che in un senso: rende il cacciatore identico alla cacciagione, e se non identico, senz’altro speculare, che è anche peggio.

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La Bestia di Salvini dilaga e arriva dritta al cuore, come un cioccolatino. E’ un contagio, un’epidemia, e allora ospedalizziamola, come orrendamente usa dire, e chiamiamola BdS. La BdS ammala ma non uccide, colonizza ma non abbatte, trasmette ma non trasforma. E’ un proselitismo che non bussa ed entra sicuro, anche dove le porte sono chiuse, sbarrate. Perché vale per Salvini e la sua bestia ciò che valeva per Berlusconi, e cioè quel paradosso, quella spaccatura che Giorgio Gaber espresse così bene dicendo che non temeva Berlusconi in sé, ma “il Berlusconi in me”. La BdS è in noi? Lo è, e se siamo nati prima noi o prima lei è facile da dire: prima noi, perché è osservando noi, e poi massimizzando e deformando quello che siamo, che è stata messa a punto. La BdS non è un punto di non ritorno, ma un punto di non creazione, cioè di generazione. Questo conta nella misura in cui ci permette di vedere e poi ammettere che i movimenti tra la Bestia e noi sono la continuità, la contiguità, la sconfitta, l’assorbimento. Conta per capire per l’ennesima volta, quindi confermare, che le origini del male sono sempre molto, molto plurali e molto, molto condivise. Conta perché dimostra che, in definitiva, l’allarme mostro non funziona che in un senso: rende il cacciatore identico alla cacciagione, e se non identico, senz’altro speculare, che è anche peggio.

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Una delle più clamorose belle copie della Bestia di Salvini sono gli account degli scrittori italiani sui social, specie quelli che dalla B se ne dissociano, indignati. Lo sanno? Non lo sanno. Però noi sì, noi che ogni tanto dovremmo provare a fingerci quel noto alieno che a un certo punto arriva sulla terra e si mette a ficcanasare tra le nostre cose vedendone soltanto la superficie, che non è per forza una maniera sbagliata o disonesta di fare un’analisi, un’incursione, un viaggetto verso il centro, il punto, il nodo.

 

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Una delle più clamorose belle copie della Bestia di Salvini sono gli account degli scrittori italiani, specie quelli che dalla B se ne dissociano

Gli scrittori italiani su Twitter o Facebook o Instagram (e speriamo scoprano TikTok con i medesimi ritmi con cui hanno scoperto gli altri social, cioè all’incirca quando sono diventati nosocomi e/o reparti geriatrici), sono in largo numero ammalati di BdS, come del resto siamo tutti, nessuno si senta risparmiato, altrimenti il paese sarebbe andato da un’altra parte, e non si starebbe candidando ad andare dove sta andando. Della Bestia i profili di certuni intellettuali possiedono e perpetrano la medesima tendenza alla semplificazione; alla manipolazione; alla mitomania; al manicheismo; all’indifferenziazione; alla trasfigurazione della realtà; all’irrisione finalizzata all’ostracismo; all’autoesaltazione; alla personalizzazione di qualsiasi cosa meno che della responsabilità. Poi ci sono i pessimi per conto loro, quelli che non hanno niente della Bestia, ma hanno trovato modi persino peggiori di comunicare, esistere, esercitare (meglio: tentare di esercitare) un’influenza, quelli inefficaci e ridicoli, quelli che nostra zia li guarda e si chiede come mai nessun loro amico, o parente, o affiliato, o congiunto di qualsiasi tipo li fermi, li domi, li consigli, corregga, dispensi; quelli che nostro nonno, individuo novecentesco e quindi sconfitto ma molto dignitoso, li legge e si chiede come mai passino tutto il giorno su Facebook anziché sul romanzo che devono scrivere, deducendone peraltro che se preferiscono il social al libro non si capisce perché i lettori dovrebbero fare diversamente ed ecco spiegata la ragione per cui i libri vendono poco, e per grazia ricevuta – e hai voglia tu a spiegare a tuo nonno che è molto più complesso di così, e poi che dovrebbe aggiornarsi, non è mica vero che i libri vendono poco, quest’anno dalla fiera romana Più Libri Più Liberi sono arrivate ottime notizie di incrementi, persino un 3,7 per cento in più di vendite nei primi mesi del 2019.

 

Qualche anno fa, quando gli scrittori si arresero al fatto che gli oblò da cui guardare il mondo erano diventati quelli virtuali e, soprattutto, accettarono che usarli attivamente non era un peccato ma poteva persino rivelarsi cosa buona e giusta, si dibatté a lungo e forse anche noiosamente su cosa fosse appropriato che gli intellettuali pescassero da Facebook o vi dicessero sopra e molto presto nacquero trame da status, e poi personaggi da status, raccolte di status, e infine l’estrema summa di tutto: l’interazione lettore/scrittore a fini produttivi, ovvero lo scrittore che scrive un libro insieme ai propri follower. Il mese scorso Federico Moccia ha pubblicato “La ragazza di Roma nord” (Sem) scritto in collaborazione con altri lettori aspiranti scrittori che hanno inviato, dall’estate all’autunno, dei capitoli, e sono stati selezionati. Un’operazione che sembra figlia dei social e che su questo giornale avevamo chiamato “3 metri su Rousseau”, ma che è una pratica più vecchia, molto usata nelle scuole dell’infanzia. Moccia, paradossalmente, su Facebook è molto poco presente, lo usa per annunciare date, eventi, mostre, cose belle, ringraziare per recensioni, consigliare qualche buon libro. Niente di più. E’ un non più giovane, dopotutto. Invece gli scrittori millennial, che in Moccia vedono una delle incarnazioni del male contemporaneo, una epitome del declino intellettuale e della sua commercializzazione, registrano su Facebook una presenza attiva più o meno come quella salviniana, della quale condividono modi, dritti e rovesci.

 

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Che bello sarebbe se agli scrittori bastasse scrivere bei libri, anziché bei pensierini quotidiani, e posizioni, e disamine

Questa settimana la polemica che ha arroventato la bolla editoriale e forse anche qualche altra bollicina adiacente è stata quella innescata dallo spassoso articolo di Massimiliano Parente sulle bookinfluencer, immediatamente accusato di sessismo e pertanto impiegato come ragione sufficiente e più che nobile per massacrare Parente, il suoi libri, la sua famiglia, e pure i suoi amici. Il povero Gipi, fumettista e scrittore, ha ricevuto per ore cip (tweet) che gli chiedevano com’è possibile che uno come lui sia amico di uno come Parente, che nel suo articolo incriminato lo cita come suo compagno di videogiochi, e in certi casi gli chiedevano pure di smetterla subito, troncare quell’imbarazzante rapporto e ripulire così la sua presentabilità da quella macchia esecrabile che è l’amicizia con uno scrittore che scrive su un giornale di destra, e che dice cose sgradevoli in modo sgradevole (e cioè fa una cosa che un tempo faceva parte di ciò che chiamavamo letteratura o, se preferite, libera espressione).

 

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Gipi si è così difeso (riportiamo perché è una bella lettura, e vale un Ricky Gervais ai Golden Globe, naturalmente con i dovuti distinguo e le dovute contestualizzazioni: “Preferirò sempre le più storte, ignobili, irresponsabili, maldestre, infelici creature di questo mondo a questa generazione di preti che mi ritrovo intorno e alla quale fate a gara per appartenere. Non prendo le distanze da un amico. Piuttosto lo meno in privato. Ma non sto dalla vostra parte. Non ci sono mai stato. Non ci starò mai. Anche quando le parole di Massimiliano dovessero farmi vomitare, l’amicizia sarà sempre più importante dei vostri giudizi da comari su Fb. In altre parole: dovete morì”. Massimilano Parente ha scritto, in quel pezzo assai divertente e pure vero, con i suoi modi nient’affatto levigati (ad avercene) e nient’affatto calmierati e temperati dal terrore di dispiacere bolle e circoli e posizioni (ad avercene, ad avercene, ad avercene), che le influencer dei libri pubblicizzano i libri facendone praticamente gattini, creaturine ammaestrate che sono avvicinabili e affrontabili nella misura in cui danno un tono all’ambiente. Wired, dopo averlo insultato con toni felpati – “autore di libro del calibro di” – ha scritto che Parente ha attaccato le bookinfluencer perché donne, ma se per caso provassimo a levarci il sessistometro dagli occhi riusciremmo forse a capire che Parente non ha attaccato le influencer ma il pubblico, lo stesso dal quale dipende il suo tenore di vita, che è messo così male da essere invogliato ad andare in libreria da perfetti set fotografici che non dicono niente di letteratura e tutto di immagine, niente di scrittura e tutto di marketing. Si può ragionare su questo, visto che peraltro esistono inchieste (una sull’Atlantic) su come le case editrici studino le copertine affinché siano, per usare una parola orrenda, instagrammabili, e cioè belle da postare sui social network? Scrive Wired che Parente nega il talento delle bookinfluencer e, soprattutto, nega che svolgano una funzione che i giornali non riescono più a svolgere: fanno vendere i libri di cui parlano. E quindi a questo sono ridotte le anime belle: intoccabile è chi fa vendere, non importa come, non importa perché. L’etica del salumiere, praticamente.

 

L’estrema summa di tutto è l’interazione lettore/scrittore a fini produttivi, ovvero lo scrittore che scrive un libro con i propri follower

E ora arriva la BdS. Michela Murgia, scrittrice, condividendo su Twitter questo articolo di Wired molto attento a rispettare tutti i crismi della presentabilità, ha scritto: “La prevedibilità del pensiero e del linguaggio. La marginalità che diventa rabbia. La misoginia da incel. In un mondo culturale normale di quello che pensa Parente nemmeno ci si accorgerebbe”. Gli ingredienti cari alla Bestia ci sono tutti: la mostrificazione (incel!) di quello che non la pensa come te, lo svilimento del suo pensiero, l’accusa di opposizione per invidia, la sottolineatura dell’irrilevanza numerica (noi siamo quelli che vendono e vincono premi, Parente no; uguale a Salvini che ritiene che essere in testa ai sondaggi dia il diritto a disporre di pieni poteri). Salvini zittisce o ignora o sbeffeggia chi lo contrasta dandogli del gufo, del sinistro, dell’infelice e tanti saluti alla sostanza degli argomenti; Murgia liquida un suo collega dandogli del rancoroso odiatore di donne (specifica per chi non è avvezzo alle storture patriarcali: gli incel sono i maschi, soprattutto giovani, che si dedicano all’insulto delle donne che non riescono ad avere e spesso vanno ben oltre l’insulto, e le minacciano, perseguitano, seviziano, aggrediscono). E tanti saluti ai richiami per linguaggi più miti, polemiche non personalistiche, posizioni più sfumate, accoglienze al diverso. All’estremismo cui la bestia di Salvini induce, l’intellettuale italiano risponde con ostinazione uguale e contraria.

 

Ma andiamo sui palchi dell’Off-Off Broadway, tra le giovani e promettenti leve dei libri che verranno. Un’uscita che ha arroventato la medesima bolla, qualche settimana fa, è stata una stramba richiesta di Jonathan Bazzi, autore del libro dell’anno di Fahrenheit di Radio3, “Febbre” (Fandango), nel quale racconta come la scoperta di essere sieropositivo ha cambiato la sua vita e come convive con la malattia. Ben scritto, bella idea, bel tema e di più: importante. Che bello sarebbe se agli scrittori bastasse scrivere bei libri, importanti, anziché pure bei pensierini quotidiani, e posizioni, e disamine. Bazzi, in questo senso, è l’esempio perfetto: non manca una polemica, e si siede sempre dalla parte dei giusti. Nonostante questo, il suo lavoro non gli rende la retribuzione sufficiente a vivere bene e disporre di mezzi utili alla scrittura e quindi a un certo punto ha pensato di rivolgersi al suo ampio e affezionato pubblico social per farsi comprare il pc nuovo. Lo ha scritto papale papale: l’anticipo della mia casa editrice per il mio nuovo romanzo non è sufficiente a pagare niente, né l’affitto né il computer che mi si è rotto, sono povero, sono debole, ho il coraggio di dirlo, se volete aiutarmi mandatemi quanto vi pare, ho aperto un crowdfunding. E nessuno che gli abbia risposto una di quelle cose che gli avrebbe risposto sempre quel vecchio brontolone di nostro nonno. Ovvero, 1) come ampiamente dimostrato dalla storia, per scrivere un libro non c’è bisogno di un MacBook Pro, sai, in condizioni estreme si può persino ricorrere a penna e calamaio, sono strumenti innocui, il massimo che possono arrecare è una tendinite, ma si può sempre ovviare come ovviò Louisa May Alcott, che pur di non interrompersi mai, avendo molto da scrivere, imparò a farlo sia con la mano destra che con quella sinistra. 2) Perché non vai a lavorare come fece Jack London, che fu scrittore ma assai prima di guadagnare dalla scrittura fece qualsiasi cosa, compreso il cercatore di ostriche?

 

Un articolo sulle bookinfluencer accusato di sessismo e pertanto impiegato come ragione sufficiente per massacrare l’autore

Come sei indelicato, nonno. 

  

Il pubblico di Bazzi, comunque, è un pubblico generoso e bello e carino e quindi il crowdfunding è andato a buon fine e lo scrittore nei giorni scorsi ci ha deliziati con doviziosa narrazione del suo viaggio a Berlino, dove ha mangiato ottime ciambelle vegane e naturalmente partecipato, via Facebook, al martirio dei giusti ai danni degli ingiusti, condividendo status conto Parente e ricordandoci che Hannah Arendt aveva proprio ragione quando diceva di non voler più avere a che fare con gli intellettuali.

 

Accidenti se aveva ragione, e fortunata lei non ci aveva visti diventare soloni, preti e riduttori ad Hitlerum sui social network. Beata lei. Chi lo sa cosa avrebbe pensato, Arendt, degli epitaffi d’autore dei gattini – “Addio, brivido cosmico!” – o delle foto di scrittore con fidanzata, con fan, con Amico della Domenica, con piatto di pasta cucinato dalla mamma, con palo della luce contro cui ci si è schiantati in adolescenza e quindi da allora si è in possesso dei titoli per dire ai giornali come dovrebbero raccontare la cronaca nera; chissà se Arendt sarebbe stata capace di spiegarci in quale maniera differisce, tutto questo, dalle foto di Matteo Salvini che fabbrica tortellini non mentre fa campagna elettorale ma per fare campagna elettorale in Emilia Romagna. Beati noi che non possiamo sapere cosa ne avrebbe pensato Hannah Arendt, perché forse ne saremmo usciti tutti con le ossa rotte. Sbriciolate.

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