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Polvere di donne

Valentina Bruschi

Susan Meiselas è stata la prima a fotografare il corpo femminile mentre vendeva se stesso. La violenza e il senso di libertà. Una mostra

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“Lo show sta per iniziare”, urlava al microfono il presentatore per sovrastare sia il vociare del pubblico maschile nel tendone piantato nell’entroterra americano degli anni Settanta, che le note di un 45 giri graffiato che suonava il ritmo di sottofondo dello spettacolo. “No ladies, no babies”, continuava il conduttore, avvertendo gli avventori della fiera di paese, con spogliarello incluso, che questo numero particolare era vietato ai minori di diciotto anni, che non lo avrebbero capito e agli anziani che non ne avrebbero sostenuto l’emozione. Ed è tra il pubblico di uno di questi strip-tease, tra cowboys di provincia, che si è trovata per caso, appena ventiquattrenne, la celebre pioniera del fotogiornalismo moderno, Susan Meiselas (Baltimora, 1948).

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“Lo show sta per iniziare”, urlava al microfono il presentatore per sovrastare sia il vociare del pubblico maschile nel tendone piantato nell’entroterra americano degli anni Settanta, che le note di un 45 giri graffiato che suonava il ritmo di sottofondo dello spettacolo. “No ladies, no babies”, continuava il conduttore, avvertendo gli avventori della fiera di paese, con spogliarello incluso, che questo numero particolare era vietato ai minori di diciotto anni, che non lo avrebbero capito e agli anziani che non ne avrebbero sostenuto l’emozione. Ed è tra il pubblico di uno di questi strip-tease, tra cowboys di provincia, che si è trovata per caso, appena ventiquattrenne, la celebre pioniera del fotogiornalismo moderno, Susan Meiselas (Baltimora, 1948).

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Da questo incontro casuale è nato il progetto in bianco e nero, “Carnival Strippers”, che valse alla Meiselas – tra le poche donne all’epoca– nel 1976 l’ingaggio alla Magnum Photos, famosa agenzia mondiale di fotogiornalismo fondata da Robert Capa e Henri Cartier Bresson, tra gli altri. Ancora oggi, questa ricerca originale non ha perso nulla della forza, della sua crudezza e rimane un documento sempre attuale, oggetto della mostra al Centro Internazionale di Fotografia di Palermo diretto da Letizia Battaglia dal titolo, “Intimate Strangers”. Nella mostra è presentato anche un altro lavoro sull’industria del sesso in America, “Pandora’s Box”, realizzato vent’anni dopo il primo, nel 1995, dalla pluripremiata autrice, nota per aver reso la fotografia un importante mezzo di denuncia sociale contro ogni tipo di violenza, dalla domestica a quella degli scontri armati (celebre il suo reportage sulla guerra civile in Nicaragua nel 1981). L’impegno civile per la difesa dei diritti umani, e in particolare delle donne, le è valso il premio Women In Motion assegnatole quest’anno. Conosciuta soprattutto per il lavoro nelle zone di conflitto dell’America Centrale (1978-1983), durante la sua carriera la Meiselas ha registrato le atrocità della guerra e la vita quotidiana delle persone che vivono in aree di conflitto, dall’esumazione delle fosse comuni dei curdi uccisi da Saddam Hussein al regime mortale di Augusto Pinochet in Cile. La mostra si inserisce all’interno di una programmazione realizzata dal Centro del capoluogo siciliano in collaborazione con la Magnum Photos, dedicata ai grandi fotografi contemporanei che ha già visto protagonisti Joseph Koudelka e Franco Zecchin.

 

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Ha reso la fotografia un importante mezzo di denuncia sociale contro ogni violenza, da quella domestica agli scontri armati

Susan Meiselas racconta al Foglio che all’epoca di “Carnival Strippers” aveva appena finito il suo master a Harvard e aveva assistito alla nascita della ribellione femminista nelle piazze di New York. L’obiettivo della sua macchina fotografica coglieva lo spirito del tempo nel documentare come queste ragazze vendessero il loro corpo agli avidi sguardi del pubblico sotto i tendoni del New England e rappresentavano tutto ciò sul quale stava riflettendo in quel momento. Che cosa significava per una donna esporre il proprio corpo come oggetto del desiderio? Osservare le performance e l’uso del sex appeal è stata un’esperienza determinante che la motivò a seguire il carnevale e a iniziare a scattare immagini dal punto di vista della platea. A volte si intrufolava nella folla travestita da uomo quando ancora non esistevano telefonini e telecamere portatili e quindi era lei, da sola, a registrare quelle particolari atmosfere. L’artista, che all’epoca utilizzava una piccola Leica portatile e senza flash, si sentiva invisibile e senza messa in scena per l’obbiettivo, riusciva a catturare la performance autentica creata dalle ragazze unicamente per il loro pubblico. Dopo quella prima estate del 1972, in cui il Senato americano approvava l’Equal Rights Amendment Act a favore dell’uguaglianza di genere, Meiselas decise di seguire questi carnevali particolari per altre due stagioni estive, un fine settimana dopo l’altro, dal Maine attraverso il New Hampshire fino al Vermont, ma anche in Pennsylvania fino alla South Carolina. Lo stesso anno, in piena rivoluzione dei costumi sessuali, Playboy pubblicò nella sua pagina centrale le foto della modella svedese Lena e quel novembre registrò oltre 7 milioni di copie vendute, un record mai più raggiunto dalla rivista oggi soppiantata da internet.

 

La mostra “Intimate Strangers” al Centro internazionale di Fotografia di Palermo, diretto da Letizia Battaglia

Per definire il mondo di queste giovani donne tra i 17 e i 35 anni, pagate dai 15 ai 50 dollari a serata (meno le spese), a seconda del successo del loro show, la Meiselas non si accontentava solo della fotografia, desiderava conoscerle individualmente, registrare le loro testimonianze ed essere invitata nel backstage, dentro il loro camerino, l’ambiente privato delimitato da tende grossolane appese dietro al palco, per capire le dinamiche tra di loro, diverse ogni sera a seconda dell’alchimia del gruppo e del pubblico, delle tensioni tra donne che viaggiavano e lavoravano insieme e le competizioni tra di loro. La fotografa ritornava a Boston, dove viveva, per sviluppare i provini e poi ogni weekend raggiungeva le ragazze che si spostavano da una città all’altra mostrando loro i risultati del suo lavoro così da instaurare un rapporto di fiducia e di scambio. A volte non le ritrovava tutte: alcune fuggite con nuovi boyfriend, altre avevano lasciato. Alcune le chiedevano un ritratto (anche se la Meiselas non si considera una ritrattista) perché non volevano mostrare ai familiari o compagni le immagini dei loro spettacoli, quindi questa parte del progetto racconta le ragazze così come volevano apparire.

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Di alcune di esse, la fotografa ha avuto modo di conoscere anche le famiglie, come quella di Lena, la cui immagine sul cubo, dal titolo “Lena on the Bally box” è diventata il simbolo della serie e copertina del libro dedicato al lavoro pubblicato negli anni Settanta (ristampato da Steidl nel 2003). La Meiselas incontra Lena e le scatta un ritratto nel primo giorno del suo ingaggio presso lo strip show, dove appare come una ragazza solare. Questo viene esposto in mostra accanto ad un’altra immagine di Lena, due stagioni dopo, ormai diventata una “veterana” e il suo corpo, appesantito, mostra i segni dell’esperienza vissuta. La sua voce, insieme a quella di altre ragazze che la fotografa stessa ha intervistato, con le testimonianze di alcuni dei loro fidanzati, degli uomini paganti del pubblico (dagli impiegati di banca agli agricoltori) e la voce squillante dei presentatori dello show, sono state registrate e diventano un racconto multimediale che ricrea questo piccolo mondo nella sua realtà, una dimensione sconosciuta alla cronaca che la fotografa ha portato alla ribalta in un periodo storico complesso in cui un intera generazione di donne era alla ricerca di una nuova identità. Una documentazione scrupolosa e attenta che, per la sua profondità ha segnato un punto di svolta nella storia del fotogiornalismo.

 

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“Pandora’s Box” ci trasporta in un luogo esclusivo, all’interno di un loft di Manhattan, definito la “Disneyland della Dominazione”

Alla storia di donne fuggite di casa in cerca di un futuro migliore, ma spesso sfruttate e rese oggetto, la fotografa aggiunge le sfumature particolari delle loro biografie da cui traspaiono consapevolezza e coraggio. Alcune di loro si esibivano per avere un’indipendenza finanziaria, altre fuggivano da realtà familiare difficili o non avevano altro posto dove andare. Le fotografie ci mostrano i corpi fragili esposti sul palco alla bramosia degli uomini del pubblico, alcuni dei quali si avvicinano alle ragazze fino a toccarle, qualora la legge dello stato in cui si esibivano lo permettesse. Colpiscono immagini in cui si vedono mogli e mariti nel pubblico e perfino un bambino, spinto sotto il palco da un adulto, tenuto stretto a guardare la donna che balla mentre un altro uomo barbuto, tipo biker, lo osserva distraendosi dallo show per un attimo, forse per capire cosa possa pensare la piccola testa del ragazzino di questa situazione. Le donne, in bikini con frange e tacchi alti, coperte da veli di tulle che, man mano eliminano, ballano fino alla fine del disco. Nel camerino, nei momenti di pausa, esauste per la stanchezza, la fotografa le ritrae con empatia, ma si intuisce che dalla loro parte anche quando il suo obbiettivo le incalza implacabile, così le loro schiene, a volte coperte parzialmente dagli asciugamani, ricordano le pose classiche delle iconografie delle “bagnanti” nella storia dell’arte.

 

Da quel momento il coinvolgimento dei soggetti fotografati, con la loro testimonianza diretta, diventa una caratteristica del lavoro di Susan Meiselas, una metodologia d’indagine che costituisce per l’artista non solo una pratica analitica ma anche una forma di impegno civile. Realizza vent’anni più tardi, “Pandora’s Box” (1995) – seconda parte del percorso espositivo ai Cantieri Culturali della Zisa – reportage che può considerarsi l’ideale prolungamento di “Carnival Strippers”.

 

La serie, realizzata in un club sadomaso di New York, svela l’esistenza di un altro rapporto con la violenza e il dolore, che qui è cercato e auto-inflitto per scelta. “Pandora’s Box” ci trasporta in un luogo esclusivo di 4.000 metri quadrati all’interno di un loft di Manhattan, definito la “Disneyland della Dominazione”. Oscuramente teatrali e allo stesso tempo non studiate, queste fotografie a colori esplorano una rete di stanze opulente e di set di uno storico “dungeon” newyorchese, dove la protagonista Mistress Raven insieme al suo staff di 14 giovani donne, si esibisce in riti di dolore e piacere fortemente formalizzati. Il lavoro è esposto in mostra sotto forma di slideshow, dove vengono proiettate le immagini in dissolvenza, accompagnate dalle testimonianze raccolte dalla fotografa sotto forma di testi battuti a macchina, sempre con la modalità dell’intervista ai protagonisti della sua ricerca. Miss Raven racconta che molte delle sue impiegate hanno dei lavori “normali” durante il giorno e che vengono scelte da lei in base alla loro intelligenza e creatività, oltre che al loro fisico, per realizzare al meglio i diversi travestimenti richiesti dai membri del club. Una delle donne è la moglie di un artista famoso, un’altra spiega che alcuni clienti arrivano con pagine e pagine scritte sulle loro fantasie. Una terza afferma che a volte diventa amica dei suoi clienti, anche se si incontrano solo nel contesto del locale.

 

Immagini in cui si vedono mogli e mariti nel pubblico e perfino un bambino, spinto sotto il palco da un adulto, che guarda una donna ballare

Così vediamo nelle immagini alcune delle pratiche delle varie mistress “dominatrix” tutte vestite di pelle e borchie con frustini: Catherine che sottomette un uomo nudo, legato e inginocchiato ai suoi pedi e poi ancora, dal suo trono ne osserva un altro che ha appena finito di frustrare nella sala dorata chiamata “Versailles”; Tanya ne tortura un altro in una sala operatoria allestita per le pratiche più estreme; Crystal ne usa uno per trainare la sua biga, e tante altre scene che vanno oltre ciò che possiamo immaginare. Una realtà inimmaginabile, ma autentica, portata alla ribalta del pubblico quattro anni prima dell’uscita del film “Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick. Un progetto che esplora le profondità psicologiche e fisiche di una forma di espressione di sé considerata tabù e sotterranea alla società americana tradizionale e puritana. “Pandora’s Box” diventa il luogo che offre alle persone l’opportunità di esplorare i lati della loro personalità che le vite pubbliche e private non consentono loro di ammettere. Un altro lavoro sul corpo che indaga il cambiamento della contrapposizione tra sottomissione e potere, mostrando un’inversione di ruoli, dove stavolta è l’immagine della donna dominatrice a prendere piede, rivoluzionando le dinamiche tra i sessi.

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