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Non lo cercò solo Leopardi: ecco gli altri esploratori dell'infinito

Giuseppe Marcenaro

Da Borges a Friedrich fino a Mark Rothko, lo spazio senza fine è stato simboleggiato con ogni astuzia possibile. Dare forma all’ineffabile attraverso l’arte è uno degli esercizi più umani che ci sia

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L’infinito misura centottanta millimetri per centodiciassette. Sta in una sorta di ottavino (ma le carte sono dieci) composto di bifogli rigati dai margini irregolari, ripiegati a metà e confezionati a quadernetto. Le prime quattro carte, interfogliate, sono infilate una nell’altra. La quinta carta, inserita quasi casualmente, con una lacerazione all’angolo superiore sinistro, vergata con tratto nitido e sottile, in inchiostro marrone dal fondo scuro, consente la “lettura” dell’Infinito: quell’infinito che Giacomo Leopardi, da due secoli esatti, con “soltanto” alcune parole fa “vedere”, “percepire”, “intuire”, e oltre… Fa “sentire” il mistero in cui tutti siamo calati.

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L’infinito misura centottanta millimetri per centodiciassette. Sta in una sorta di ottavino (ma le carte sono dieci) composto di bifogli rigati dai margini irregolari, ripiegati a metà e confezionati a quadernetto. Le prime quattro carte, interfogliate, sono infilate una nell’altra. La quinta carta, inserita quasi casualmente, con una lacerazione all’angolo superiore sinistro, vergata con tratto nitido e sottile, in inchiostro marrone dal fondo scuro, consente la “lettura” dell’Infinito: quell’infinito che Giacomo Leopardi, da due secoli esatti, con “soltanto” alcune parole fa “vedere”, “percepire”, “intuire”, e oltre… Fa “sentire” il mistero in cui tutti siamo calati.

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Quel foglio di carta vergato, chiudendo l’avventizio quadernetto in cui è celato, ha di fronte di fronte una pagina bianca

Bisogna provarlo l’indescrivibile fremito: avere tra le mani qual foglio che reca un messaggio arrivato dalla profondità del tempo la cui imprendibile dinamicità fu “bloccata ” nel 1819 con la parola poetica da un giovane uomo che in contemplazione di un “altrove”, da dietro una siepe, “scoprì” il viluppo in cui, illusoriamente sognando, siamo tutti sognati. Quel foglio di carta vergato, chiudendo l’avventizio quadernetto in cui è celato, ha di fronte una pagina bianca… Dopo esservi naufragati dolcemente, ci si abbandona al vuoto di una pagina non scritta. Che stia proprio lì il “vero” infinito? Una pagina che Leopardi volle lasciare vuota, alludendo a un altrove? Alla chiusura del quadernetto il “vuoto” della pagina bianca si sovrappone all’Infinito e lo nasconde.

 

Sono troppe le fantasie affastellate e troppo l’anelito illusorio: frustrati e usurati vagheggiamo, allucinandoci con il gioco di prestigio delle parole in letteratura e con il mélange dei colori in pittura, nell’illusione di poter contemplare il mistero. Certo… La mente si compiace nella moltitudine di esperimenti tentando di “fermare” l’inesprimibile universalità. Tentando la sorte, sporgendosi sul tramestio di un’Ade affollata di scriventi anelanti a graduali e inafferrabili varietà di infiniti: “Che mi importa quale può essere la realtà che esiste fuori di me, se la mia mi ha aiutato a vivere e sentire che esisto?”, sussurra Baudelaire, per poi abbandonarsi: “Non c’è nessun punto più acuto di quello dell’infinito. Corteggiare la bellezza dell’indescrivibile infinito è un duello in cui l’artista grida di paura prima di essere inghiottito dal magma che ci possiede”. L’ombra di Rimbaud: “Non bisogna dire penso: io sono pensato”: l’infinito negato per troppo anelito. Arthur Rimbaud, battello ebbro, falena attratta dall’accecante splendore della luce, brucia: “Io è un altro”.

 

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La mente si compiace nella moltitudine di esperimenti tentando di “fermare” l’inesprimibile universalità

E’ da che fu messa in atto la perversa vocazione dell’umano, chiamata per comodità espressione artistica del sé, che attraverso le forme più difformi e ricercate vien tentata la scommessa: riuscire a far sentire l’ineffabile senza descriverlo o semplicemente illudendosi di farlo “vedere” in una narrazione, in una raffigurazione, in una sonorità anche, implicando nell’eterno rovello la limitatezza dei sensi: vista, udito, anche il gusto… e altro, lasciato all’immaginazione di chi si provi a tentare il tentabile sul confine dell’esistente. Andare un poco oltre, sperimentando gli infiniti che sfidano i tempi.

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Dante, che contemplò il “volto dell’infinito”, confessò le propria inadeguatezza: ciò che aveva visto gli fu impossibile descrive. Quali parole avrebbe dovuto usare? Quali metafore? L’eccesso gli fu negato per povertà di mezzi espressivi? Perché non riuscì a dar conto di “quello infinito” che lo aveva abbagliato?

 

Riuscire a far sentire l’ineffabile senza descriverlo o semplicemente illudendosi di farlo “vedere” in una narrazione, in una melodia

L’infinito tenta. Proprio nei medesimi anni in cui, da dietro alla remotissima siepe su un fatale colle dalle parti di Recanati, Giacomo Leopardi sfidava l’indescrivibile ineffabilità, in altra parte del mondo un pittore – Caspar David Friedrich nato a Greifswald, cittadina svedese affacciata sulla costa baltica, “catalogato tra i romantici”, ma l’opera sua sottintenderebbe ben altro che una definizione inventariale limitante come quella ove fu collocato – “vide” il proprio infinito e riuscì a “fermandolo”, così può apparire a chi contempli quei dipinti, nel Viandante sul mare di nebbia e sulle Bianche scogliere di Rügen. Opere celebrabili. Dalle opere di Friedrich emulsiona una sublime malinconia e una febbrile eccitazione, una sensazione di sconfortante ed esaltata triste felicità: un calmo naufragio nel mare dell’ineffabile.

 

“Chiudi il tuo occhio fisico così da vedere l’immagine principalmente con l’occhio dello spirito. Poi porta alla luce quanto hai visto nell’oscurità, affinché si rifletta sugli altri, dall’esterno verso l’esterno”. Così, con allusa visione iniziatica, Caspar David Friedrich commentava se stesso nei suoi Scritti sull’arte. Dopo la morte le opere di Friedrich furono dimenticate. Gli storici dell’arte nelle loro imperterrite inventariazioni, quando gli “infiniti dipinti” di questo cacciatore di alterità riaffiorarono, li “sistemarono criticamente ” in ambiti di spiritualità paesaggistica, anticipatori semmai di “scuole” visionarie e allegoriche. Il “desiderio” di infinito delle opere di Friedrich, che sembrava depistato dalla critica, non andò tuttavia smarrito, riaffiorò carsicamente nelle opere di postumi e remoti da lui, altri cacciatori di infinito: Max Ernst, René Magritte… come una certa qual memoria emozionale consente, fin ad arrivare alla sublimità di Mark Rothko e all’ebbrezza vertiginosa della Cappella Rothko, che sta a Houston. La Cappella Rothko “vive” di indescrivibile aura. Aula sacrale, è un vuoto arredato. Alle pareti quattordici dipinti. Neri. E’ “una solitudine” che con un temperato impeto extraterrestre trasporta in una dimensione dove si naufraga nel tempo e nello spazio: anelito a una sconosciuta dimensione.

 

Dalle opere di Friedrich emulsiona una sublime malinconia e una febbrile eccitazione, una sconfortante ed esaltata triste felicità

Rothko, come Friedrich, adduce a vastità ineffabili e irracontabili. La “materia linguistica” è il nesso tra chi contempla l’opera, l’opera e l’evocazione di un altrove, in un silenzio senza principio e senza fine. Le non parole del colore schiudono una dimensione irriferibile, “aperta” sulla bellezza abbagliante del mistero che si sta rivelando. Nella Cappella Rothko, in superba immobilità, si vede levitarsi “lo spazio di là da quella..”.e si intendono ”silenzi e profondissima quiete… ove per poco il cor non si spaura”.

 

L’eterno anelito: tentare di avvicinarsi all’ineffabile con una formula: passabilmente sollecitare l’impossibile con un negromantico inganno estetico: l’immaginario si “sente” e non c’è. E non è. Nel mezzo di questa alterità si intende anche il sussurrato “commento” dall’amaro scetticismo di Eugenio Montale: “Non domandarci la formula / che mondi possa aprirti / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

 

La constatazione amara di un testimone che imperterrito scava per scoprire donde si nasconda il segreto che perseguita l’umano dall’origine dei tempi: “Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità”.

 

La Cappella Rothko “vive” di indescrivibile aura. Aula sacrale, è un vuoto arredato. Alle pareti quattordici dipinti. Neri

L’imprendibile non storia che sto tentando di evocare parte da lontano. L’infinito è stato simboleggiato con ogni astuzia possibile. Esempi a migliaia rotolano con la slavinata dei tempi. Raffigurazioni e rappresentazioni d’ogni ineffabile con l’uso della lingua, della scrittura con il gioco e le malizie e la fascinazioni degli stili, anche con le forme più spericolate, ingannevoli e ambigue.

“Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni… Io considero le illusioni come una cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa”. Da Leopardi non potremmo aspettarci altro.

 

Lasciando libera la fantasia e le nozioni libresche, e con la memoria piena di immagini, per divertita digressione, si possono magari convocare, a far parte di un ipotetico, disordinato, insensato e indominabile corteo, gli “ismi” inventati e coniugati da tutte le più fantasiose avanguardie del pensiero e dell’arte, spericolati esperimenti vissuti come arcani: ermetismi, cabalismi, alchimismi, estetismi vari, romanticismi, surrealismi, astrattismi, e ciascuno eventualmente metta del suo, riuniti a un ideale universale consesso per trovare una “forma”, qualora esistesse, per stabilire la regola aurea che ogni vivente ha l’illusione di percepire e gli è impossibile rappresentare se non, forse, con chimeriche metafore: l’autocontorcimento dell’oroboro che per rendersi essenziale comincia a divorarsi dalla coda.

 

Fantasiosi tipi come Robert Fludd, medico, alchimista e astrologo britannico, coinvolto fin all’eccesso in bagni teosofici

E a questo punto di dilagata eccentricità in quale ulteriore salto mortale senza rete ci si può impegnare? Far ricorso, per aumentare la dose e per puro gioco accademico, a qualche rara curiosità, retrocedendo a fantasiosi tipi, per alcuni versi ormai accecati dal tempo, come Robert Fludd, detto anche Robertus de Fluctibus, medico, alchimista e astrologo britannico, coinvolto fin all’eccesso in bagni teosofici. Era un fervente sostenitore e seguace della tradizione ermetico-cabalistica del Rinascimento, corteggiata da Marsilio Ficino e da Pico della Mirandola. Tutta una bella genia che ambiva fornicare con l’infinito. A viverlo, passabilmente. Fludd agli inizi del Seicento pubblicò un’opera, Utriusque Cosmi, maiores scilicet et minores, metaphysica, physica atque technica Historia, dove ostentò, con l’opportuna didascalia Et sic in infinitum, un quadrato nero in cui stavano esibiti ed espressi, secondo formula, il “mondo più grande” e il “mondo più piccolo”. Fludd coniugava con questo geometrico scenario il grande mondo dell’universo e il piccolo mondo dell’uomo fusi in un quadrato nero. Un perfezione entro cui dolcemente naufragare e contemplare l’infinito.

 

Robert Fludd fu, per inconscio e sottile scaltrissimo inganno, ma è l’illusione del postero a volerli sovrapporre in affinità con maliziosa perversione, il possibile anticipatore di quell’altro eccesso estetico con aspirazione all’infinito che è il Quadrato nero di Kazimir Malevič, concepito nel 1915? 

 


C'è chi ci prova con la parola e chi con la matematica. Più di duecento anni dopo il testo più famoso del poeta di Recanati nessuno ha fatto di meglio


 

Il Quadrato nero del suprematista Malevič – altra esperienza sensoriale: andare oltre senza andare da nessuna parte – “riempie le forme, risuona con i bordi. Ma le forme sono senza peso, più come pensieri che come immagini. Abbandonati all’immagine così tanto da lanciarti nel suo sublime senza tracce. Oltre la sua ovvia eleganza, come un infinito l’opera sembra semplice perché lo è”. Comunica incondizionate possibilità. Impetuose. Assolute. Depistanti.

Nel mezzo di questo osato e protervo guazzabuglio, affollato di tentativi e fallimenti – più quelli dimenticati di quanti ripescati nella memoria – per tentare inutilmente di capire da che parte siamo voltati, obbligatoriamente sembra si debbano evocare, giacché premono nella memoria, anche le sperimentazioni di un poeta algido: a Paul Valéry non doveva bastare, quale grimaldello l’uso delle parole e dei versi, che in una sorta di “caccia magica”, teso il ròccolo, gli consentisse di catturare il proprio infinito. Si era abbandonato alle volute del suo Cimitero marino abbacinato dalla solarità impetuosa del mezzogiorno: “Il mondo conoscibile si divide, si apre e si separa dalle acque, il solido, il misurabile dell’irrazionale...Poi il sovrapporsi del pensare e dell’essere”. Il verso poetico come un negante confine? E allora, ogni giorno, oltre all’esercizio letterario, per assaporare l’alchimia del verso, per altro già corteggiata da Rimbaud, Valéry si dedicava a risolvere spericolate integrali. Nell’illusione che l’infinito potesse affiorare dalla perfezione di un calcolo algebrico.

 

Jorge Louis Borges il proprio infinito lo rinvenne tra il terzo e il quarto gradino di una scala che portava alla cantina di una casa

Jorge Louis Borges il proprio infinito lo rinvenne invece tra il terzo e il quarto gradino di una scala che portava alla cantina di una casa di Adrogué in Argentina: lo chiamò Aleph: “In quell’istante gigantesco, ho visto milioni di atti gradevoli o atroci; nessuno di essi mi stupì quanto il fatto che tutti occupassero lo stesso punto, senza sovrapposizione e senza trasparenza.

 

Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto… Ogni cosa era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini… vidi infiniti occhi che si fissavano in me, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté… vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia… vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno… vidi la mia stanza da letto vuota… vidi la delicata ossatura d’una mano… vidi tutte le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi lettere impudiche… vidi la circolazione del mio oscuro sangue… vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte… vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo”.

 

La gran sala di lettura della British Library di Londra, un gentilissimo bibliotecario e la mia esperienza con l’infinito

Il 26 novembre 1999, un giorno assolutamente trascurabile per la storia del mondo. A Londra. La timorosa memoria, che a stento abbraccia il ricordo, mi riporta alla gran sala di lettura della British Library. Un gentilissimo bibliotecario, di cui non ricordo il nome e che per comodità chiamerò mr. Book, dopo avermi fatto cortesemente contemplare – ho ancora sentore della lussuriosa emozione – alcuni manoscritti italiani di Byron, cui era accorpata una busta contenente le ceneri di Shelley raccolte dopo la sua cremazione sulla spiaggia di Migliarino, e che mi suggerirono inquietanti analogie, si offrì di accompagnarmi in una visita alla biblioteca. Mr. Book parlava uno splendido italiano con una leggera cadenza toscana. Dopo scalinate soffuse senza esito e silenziosi ascensori, sbucammo infine, privilegio riservato a pochi – come sottolineò Mr. Book – a una altana sospesa sopra la gran sala di lettura della biblioteca. Vi si accedeva da una piccola porta mimetizzata, quasi impossibile a individuare. L’altana, un balcone aereo sul paesaggio, un palco a teatro, stava agganciata, come un nido di rondine alla grondaia, sotto l’ampio lucernario da cui filtrava, nella luminescenza opalina, una nevicata di chiarore impalpabile che si adagiava, come una nevicata, nell’ampia cavea sottostante dove regnava un sovrano silenzio. Assordante nel suo assoluto. Era una immobilità disturbata dall’usuale e avventizia onda delle pagine voltate in dissonanza, che emettevano una musica stanca e atonale. Una frusciante sonorità che mai avevo inteso. In tutto non vi era nulla di memorabile. La silenziosa voce dei libri risvegliati evaporò d’un tratto mutandosi nel bisbiglio del mondo. Percepii allora in me un confuso malessere che volli attribuire all’altezza dell’altana. Fui preso da una strana rigidità come di chi stia cadendo per effetto di vertigine. Chiusi gli occhi. Li riaprii. E nel mio goffo principio d’illusoria estraniante estasi, soggiacei all’illusa visione. Non più la gran sala di lettura della British Library, ma vidi nettamente… vidi la luce che si effondeva, inondando… vidi il mondo, scrutai l’infinito. L’infinito levitava dalla musicalità di pagine sfogliate.

 

Da quel giorno ho la certezza che, al di là della letteratura e dell’arte, e di ogni altro estetico speculativo groviglio, l’infinito è attorno a noi: e si può rivenire in un biglietto del tram.

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