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Elegia per i bambini perduti

Annalena Benini

Il libro di Valeria Luiselli è un viaggio al confine della speranza di un futuro per chi fugge. Con la letteratura, la vita, il presente, e con i fratelli che tengono per mano le sorelline nel deserto

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Cosa faremmo, per dire, se uno di noi scomparisse? A parte l’orrore, lo spavento immediati, come ci muoveremmo? Chi chiameremmo? Dove andremmo? Mi volto indietro, verso i nostri figli addormentati sul sedile posteriore. Li sento respirare e mi interrogo. Mi domando se sopravviverebbero in mano ai coyote, e cosa gli accadrebbe se dovessero attraversare il deserto da soli. Se dovessero contare unicamente su loro stessi, i nostri bambini sopravviverebbero?

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Cosa faremmo, per dire, se uno di noi scomparisse? A parte l’orrore, lo spavento immediati, come ci muoveremmo? Chi chiameremmo? Dove andremmo? Mi volto indietro, verso i nostri figli addormentati sul sedile posteriore. Li sento respirare e mi interrogo. Mi domando se sopravviverebbero in mano ai coyote, e cosa gli accadrebbe se dovessero attraversare il deserto da soli. Se dovessero contare unicamente su loro stessi, i nostri bambini sopravviverebbero?

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Questa è la domanda. Che muove il romanzo, che costruisce l’archivio, che crea l’elegia dei bambini al confine, dei bambini che fuggono, di quella che chiamiamo “emergenza migratoria”, per non immaginare nulla di più, per smettere di pensare a loro. I bambini sui treni, i bambini nel deserto, i bambini nei centri di detenzione. I nostri bambini, ma di altre famiglie, come le nostre oppure molto diverse dalle nostre. Le voci dei bambini, il loro lessico famigliare, la loro paura che è uguale alla nostra. Due gocce d’acqua di paura.

 

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Quando i bambini senza documenti arrivano al confine con gli Stati Uniti, scrive Valeria Luiselli in Archivio dei bambini perduti (tradotto da Tommaso Pincio e pubblicato in Italia dalla Nuova Frontiera, fra i dieci migliori libri del 2019 secondo il New York Times), e arrivano con i numeri di telefono cuciti dentro i colletti delle camicie, dopo aver attraversato il Messico in cima ai vagoni del treno, cercando di non cadere giù, con l’acqua per il viaggio e le noccioline e le mutande di ricambio, vengono sottoposti a un interrogatorio da un addetto al pattugliamento del confine o da un poliziotto. E’ l’interrogatorio del “timore fondato”, bisogna stabilire se questi bambini avevano il diritto di fuggire. Perché sei venuto negli Stati Uniti? In che data hai lasciato il tuo Paese? Perché hai lasciato il tuo Paese? Qualcuno ha cercato di ucciderti? Hai paura di ritornare nel tuo paese? Perché? Poi entrano in un centro di detenzione per rifugiati, e la madre li cerca, o una zia li cerca, non sempre li trova, non sempre le cose vanno come avevano sperato. I bambini vengono messi su aerei che li riportino indietro, perché in questa immensità non c’è posto per loro. Oppure attraversano il confine, non incontrano nessun poliziotto, si inoltrano nel deserto.

  


I bambini arrivano al confine con i numeri di telefono cuciti dentro i colletti delle camicie, attraversano il Messico da soli. Il romanzo di Valeria Luiselli, nata a Città del Messico nel 1983, è fra i dieci migliori libri del 2019 secondo il New York Times


 

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Oggetti trovati nel deserto: un dentifricio Colgate, uno spazzolino da denti, un telefono cellulare, una foto della mamma con i capelli raccolti.

 

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Nome: Huertas-Fernandez, Nuria

Sesso: femminile

Anni: 9

Causa del decesso: colpo di calore

Stato: Arizona, autostrada statale

 

Ci sono altri certificati di morte in questo libro, fanno parte dell’archivio, fanno parte dello scopo del viaggio, costituiscono questo diverso tipo di romanzo: saggio, diario di bordo, racconto sonoro, letterario e intimo del presente in cui ci si perde. La prima parte ha la voce della madre, la seconda parte ha la voce del figlio. Un bambino di dieci anni che viaggia con i genitori documentaristi: lei vuole documentare l’emergenza dei bambini al confine con gli Stati Uniti, e poi capisce che vuole documentare i bambini scomparsi, lui vuole documentare gli Apache. Un unico viaggio per due viaggi diversi, e in questo viaggio in macchina, con due bambini sul sedile posteriore, di dieci e cinque anni, maschio e femmina, nati da precedenti matrimoni, si consuma anche il disamore, la separazione, la fine dell’essere insieme. “Andavamo avanti, non proprio insieme però”. Lui sta attento alla strada, lei studia le mappe. Lasciano che le voci dei bambini subentrino al loro silenzio di adulti sull’orlo del collasso, e raccontano storie. Di Apaches e di bambini perduti. Rispondono alle domande. Cercano di fermare quelle lunghe ore che li stanno conducendo a una fine, e dunque a un nuovo inizio.

 

“Le conversazioni, in una famiglia, diventano archeologia linguistica. Costruiscono il mondo che condividiamo, lo stratificano in un palinsesto, dando senso al presente e al futuro. La domanda è: in futuro, scavando nel nostro archivio privato, riascoltando il nastro della nostra famiglia, quelle conversazioni equivarranno a una storia? A un paesaggio sonoro? O saranno soltanto macerie di suoni, rumori e detriti?”.

 

Si fermano nei motel, pianificano la giornata successiva. Ascoltano le notizie alla radio. Sistemano gli archivi nel bagagliaio dell’auto: lui, che vuole fare un documentario sonoro sugli echi degli Apache, gli ultimi ad arrendersi agli americani, ha quattro scatole, lei che vuole inseguire le storie dei bambini perduti, ne riempie una soltanto, ma anche il bambino e la bambina pretendono una scatola a testa, che in tutta la prima parte del viaggio rimane vuota. Sette scatole, numerate con il pennarello nero: due vuote e le altre piene di mappe, di libri, poesie di Emily Dickinson, certificati di morte, foto polaroid, registrazioni sul campo e appunti sparsi: sono i loro progetti, è il loro filo per non perdersi. E’ l’archivio degli adulti che hanno piani diversi, e che per non perdersi dovranno alla fine rompere il patto. Lasciare che l’infelicità invada l’abitacolo dell’automobile.

 

Valeria Luiselli, nata a Città del Messico nel 1983, ha già scritto altri due romanzi e due saggi (tutti pubblicati dalla Nuova Frontiera), ha vinto premi importanti, scrive in spagnolo e in inglese, adesso vive a New York. Nel 2015 ha prestato servizio volontario come traduttrice al tribunale federale di New York nei casi di immigrazione dei minori non accompagnati, aiutava a tradurre i documenti, a far compilare un questionario ai bambini, cercava di evitare il rimpatrio, e ha raccontato questa storia nel saggio Dimmi come va a finire.

 

Ha conosciuto un prete, Juan Carlos, e lei che aveva studiato in un collegio anglicano femminile non stravedeva per i preti. Ma lui le piacque subito. La invitò a una veglia, e lei ci andò, all’esterno di un edificio che serviva anche da centro di detenzione. Le altre persone presenti alla veglia appoggiarono i palmi delle mani addosso al muro dell’edificio. Valeria Luiselli si unì a loro. Juan Carlos, il prete, chiese in tono alto e severo: Chi è scomparso?

 

Le persone in fila, con i palmi appoggiati al cemento ruvido, gridarono una a una il nome. Awilda. Digana. Jessica. Barana. Sam Lexi. Cem. Brandon. Amanda. Benjamin. Gari. Waricha.

 

“Pronunciavamo quei nomi forte e chiaro, benché fosse difficile impedire alle nostre voci di spezzarsi, ai nostri corpi di tremare”.

 

Sono le sparizioni, le perdite. Ma siamo noi a viaggiare, loro a fuggire.

 

Valeria Luiselli ha scritto un romanzo documentato e costruito con evidenza sulle fonti – testuali, musicali, visive, audiovisive –, pieno di echi letterari e rimandi politici: la cronaca, la vita, l’analisi della realtà, l’invenzione. Tutto viaggia insieme e si mescola in una lingua tesa, seria, in cui il respiro è dato dalle voci di questi due bambini, forse troppo straordinari per la loro età, ma il racconto può tutto: un bambino di dieci anni può diventare l’elegia di un bambino di dieci anni, che cammina da solo insieme a sua sorella fino alla valle dell’Eco, e che va alla ricerca dei bambini perduti e dell’amore intatto dei suoi genitori, e alla fine, dopo che le guardie forestali li trovano nell’Echo Canyon, registra un saluto alla sua sorellina, da cui sta per separarsi perché sono i genitori a separarsi.

 

“Quando sarai più grande, tipo me, o anche più grande, e racconterai ad altri la nostra storia, loro ti diranno che non è vero, che è impossibile, non ti crederanno. Non starli a sentire. La nostra storia è vera e in fondo al tuo cuore selvaggio e ai tuoi riccioli folli, tu saprai che è così. E avrai le foto, e questo nastro per provarlo. Non perderli, né il nastro né la scatola con le foto. Mi senti, maggiore Tom? Perché tu perdi sempre tutto”.

 


Cosa accadrebbe se restassero completamente soli? E’ questa la domanda. Ed è ciò che accade. La natura umana spogliata dei diritti. La fine di un amore, un viaggio fino in Arizona, sette scatole nel bagagliaio, due bambini e l’archivio sonoro di un’esistenza


 

Tutti sono in viaggio, dentro questo libro, tutti sono in emergenza migratoria, dentro questo presente. Tutti hanno qualcosa di cucito addosso, o dentro, per non perdersi. Un numero di telefono, una bibbia, delle noccioline, una mappa, un progetto, i ricordi. Ma ci sono anche le bambine scomparse che muoiono nel deserto, le bambine che erano state preparate per il viaggio dalla nonna e che dovevano raggiungere la madre a New York. Ci sono tanti bambini scomparsi. Perduti. E Valeria Luiselli usa il romanzo per creare un libretto rosso, Elegie per i bambini perduti, che immagina scritto da un’italiana, Ella Camposanto, e che costituisce l’eco delle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, e della Terra desolata di T. S. Eliot, ma anche della Signora Dalloway di Virginia Woolf, e dell’Odissea di Omero. Questo libretto rosso fa parte dell’archivio della madre, ma diventa il libro che scandisce il viaggio, e che offre pietà, grandezza e dignità a tutti i bambini perduti, a tutti i bambini in viaggio, a tutti i bambini che non sono riusciti ad attraversare il deserto (o il mare, o il bosco), e che hanno perduto l’infanzia. E hanno viaggiato sui treni, hanno tenuto sorelline per mano, hanno cercato da mangiare, hanno incontrato persone cattive o persone buone, si sono addormentati con il dito in bocca sul pavimento di un posto sconosciuto, hanno sentito la pancia svuotarsi per l’angoscia, hanno aspettato una telefonata, una carezza, un sorso d’acqua, hanno provato a pensare che era una grande avventura, hanno abbracciato lo zaino di giorno e di notte, hanno avuto paura dell’uomo che li guidava nella foresta di notte per arrivare al confine, per saltare sul treno in corsa. Chi esitava, chi mancava la sbarra o cadeva, veniva lasciato lì (“vedete di non avere le mani sudate o le braccia molli e abbassate”). I bambini più piccoli barcollano sotto il peso degli zaini. I bambini che se riescono ad arrivare andranno a scuola, andranno a giocare al campo, andranno a vivere con la famiglia. Oppure niente.

 

E poi? chiedeva un altro bambino.

 

Che c’è dopo? chiedeva una bambina. Dopo vedremo che succede.

 

Cosa accadrebbe se i bambini restassero completamente soli? E’ questa la domanda. Ed è anche ciò che accade. Come faranno i bambini a non perdersi? Come Hansel e Gretel, come Pollicino, come i bambini spogliati di ogni diritto. E cosa può succedere alla natura umana spogliata di ogni diritto?

 

I due fratellini camminano insieme, da soli. “Mi hai dato la mano, e io l’ho tenuta stretta nella mia. Ci siamo addentrati nel deserto, irreale come il deserto dei bambini perduti, e sotto lo stesso sole rovente, per quegli stessi sentieri, io e te nel cuore della luce, come i bambini perduti, camminando da soli insieme, ma tenendoci per mano, io e te, perché adesso mai e poi mai l’avrei lasciata”.

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