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Una vera Babilonia

Ilaria Gaspari

Il caso, il teatro, la lingua. E poi l’ossessione per gli oggetti, ma soprattutto per le persone e le loro storie. Una conversazione con l’autrice francese Yasmina Reza, e sulla distanza perfetta fra sguardo e personaggi

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Capita spesso, ve ne sarete accorti, di innamorarsi quando si è soprappensiero, quando si era impegnati in qualcos’altro, quando ci si annoia e si abbassa la guardia. Un giorno di qualche anno fa, a Parigi, mi ritrovai, una volta tanto, in anticipo a un appuntamento. Non sapevo come ingannare un’attesa a cui, da ritardataria cronica, non ero abituata, e oltretutto pioveva. Così entrai in libreria. E mentre distrattamente scorrevo gli scaffali mi imbattei in un libro. Il titolo, Heureux les heureuxFelici i felici – citava una delle “beatitudini” di Borges, ripresa anche in epigrafe: “Felici gli amati e gli amanti e coloro che possono fare a meno dell’amore. / Felici i felici”.

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Capita spesso, ve ne sarete accorti, di innamorarsi quando si è soprappensiero, quando si era impegnati in qualcos’altro, quando ci si annoia e si abbassa la guardia. Un giorno di qualche anno fa, a Parigi, mi ritrovai, una volta tanto, in anticipo a un appuntamento. Non sapevo come ingannare un’attesa a cui, da ritardataria cronica, non ero abituata, e oltretutto pioveva. Così entrai in libreria. E mentre distrattamente scorrevo gli scaffali mi imbattei in un libro. Il titolo, Heureux les heureuxFelici i felici – citava una delle “beatitudini” di Borges, ripresa anche in epigrafe: “Felici gli amati e gli amanti e coloro che possono fare a meno dell’amore. / Felici i felici”.

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Siccome mi fido molto dell’idea che i felici debbano essere felici, comprai il libro, mi sedetti a leggere e mi scordai il mio appuntamento.

 

C’è una qualità inafferrabile – e per questo estremamente seducente – nel suo lavoro. Una qualità difficile da definire

Il nome dell’autrice, Yasmina Reza, mi era familiare: l’avevo sentito spesso, associato a un film di Polanski del 2011, che avevo molto amato. Carnage, storia di due coppie di genitori che si ritrovano per discutere civilmente di una piccola rissa fra i figli ragazzini e finiscono per scannarsi fra loro, era tratto per l’appunto da una pièce di Reza, Il dio del massacro (2006) che avrei letto di lì a poco nella bella traduzione Adelphi di Laura Frausin Guarino ed Ena Marchi. Perché dopo aver centellinato le solitudini fin troppo umane di Felici i felici, straordinario romanzo corale che scompone le relazioni di un gruppo di personaggi in un prisma di vite segrete, destinate a sfiorarsi in un perpetuo asintoto, mi fu chiaro che dovevo leggere altro, di quell’autrice che faceva risuonare in me corde profonde.

C’è una qualità inafferrabile – e per questo estremamente seducente – nel suo lavoro. Una qualità difficile da definire: si può essere tentati di dire che è leggerezza, semplicità, una grazia lieve e nervosa che percorre ogni pagina – ma si tratta, credo, di qualcosa di ben più sottile.

Penso che sia una forma di profonda e istintiva intimità con la vita, anzi con le vite, degli altri; un’intimità per nulla chiassosa o viscerale, ma piuttosto riservata, discreta, che permette a Reza di mantenere rispetto ai suoi personaggi una distanza che la protegge dalla tentazione di essere vorace dei loro segreti e le permette così di vederli – e mostrarli – tanto bene.

 

Incontro Reza a Roma, dove è arrivata per la promozione di Bella Figura, l’ultima sua pièce pubblicata da Adelphi nella traduzione di Donatella Punturo, storia di una cena fra amanti che si trasforma in grottesca resa dei conti perché lui, goffo e stolido come può esserlo un uomo che si sente fallire, la porta in un ristorante consigliato dalla moglie. La quale, ovviamente, non l’ha consigliato solo a lui: cosicché la coppia clandestina si ritrova faccia a faccia con un’amica di famiglia, a cena con il marito e la suocera che compie gli anni…

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La incontro alla Nuvola, carismatica e gentile, nella confusione della fiera dell’editoria. Le racconto di quando ho letto Felici i felici, di quell’incontro fortuito e irreversibile; mi risponde di aver scoperto lei pure per caso alcuni suoi grandi amori letterari.

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“Il caso dipende sempre dalla persona che coinvolge. Non esiste in sé, ma sempre in rapporto a qualcuno”, dice Reza

Le domando allora che peso abbia il caso, il puro caso (sempre che esista), nella sua ricerca di lettrice ma anche, e soprattutto, di scrittrice: le capita che sia qualche semplice evento della vita quotidiana, qualcosa che di striscio intercetta il suo sguardo, a far scoccare la scintilla e darle l’idea per un romanzo o una pièce?

“Quello del caso”, mi risponde Reza, “è un tema molto interessante, perché il caso dipende sempre dalla persona che coinvolge. Il caso non esiste in sé, ma sempre in rapporto a qualcuno”, mi dice; e io penso a quanto è vero, quanto è evidente, che una sorta di magnetismo inconscio ci guidi verso quel che ci è affine. “Questo ha una grande importanza in letteratura – e nel mio modo di lavorare. Ogni volta che mi sono detta: toh, ecco un tema interessante, forse dovrei scriverne, alla fine non sono arrivata da nessuna parte. La parte più razionale del cervello non riesce a pensare secondo una logica artistica. Quello che guida la scrittura – parlo per me, ovviamente – è una sequenza inconscia di impressioni e di associazioni. Per rispondere alla sua domanda, direi che sono sempre partita da qualche fatterello di importanza trascurabile di cui sono venuta a conoscenza proprio grazie al caso; o, altre volte, da un luogo particolare che, chissà come, riusciva ad aprire un campo libero alle costruzioni della mia immaginazione”.

 

Leggendo Bella figura, ho messo a fuoco un’intuizione che già avevo sfiorato altre volte: le descrizioni fisiche dei personaggi – e dei loro gesti – sono solo abbozzate. Eppure, anche se è vero che si tratta di un testo scritto per essere messo in scena, si prova un gusto speciale nel leggerlo senza vederlo rappresentato, sfruttando gli appigli rari – e per questo tanto più preziosi – che Reza offre all’immaginazione nel descrivere una risata o una postura, lasciando che siano quelle tracce minime a infondere vita ai personaggi; come quando, in Bella figura, i due amanti, Andrea e Boris, di cui conosciamo solo vagamente l’età e quasi per nulla le fattezze, iniziano a ridere insieme loro malgrado, mentre litigano, e gli astanti sprofondano in un imbarazzo rigido, palpabile, per l’intesa che la risata rivela. Anche nei romanzi le sue descrizioni hanno la caratteristica di essere aperte, ariose e stilizzate; ma la forma del romanzo fa sì che trovino uno spazio più ampio in cui espandersi. Le chiedo allora, anche se immagino che sia una domanda a cui avrà risposto un milione di volte, se lei provi più piacere a scrivere pièces o romanzi; e se veda le due forme come in qualche modo affini, o complementari.

 


 

Yasmina Reza (foto @Pascal Victor Artcom Press) 


 

“Questa domanda mi viene posta spesso e mi trovo sempre in difficoltà a rispondere”, mi confessa; e, certo, che gliel’abbiano chiesto spesso non mi stupisce. Mi stupisce, invece, che proprio lei che passa con disinvoltura da una forma all’altra la senta come una questione delicata. “Per me”, continua, “non c’è tutta questa distanza fra i due tipi di scrittura. Sono sempre io, con il mio stile, il mio modo di apprendere il mondo. Dal punto di vista tecnico, però, le differenze sono enormi. Le sfide da affrontare per la costruzione di una pièce non sono certo quelle che pone un romanzo. Io ho avuto fortuna: ho cominciato a scrivere per il teatro, e non viceversa”. E’ vero: ben dieci anni prima del primo romanzo, Hammerklavier, che nel 1997 le valse un prestigioso premio dell’Académie Française, e prima della consacrazione internazionale di Arte (1994), Reza – che si era formata come attrice – esordì proprio con un testo teatrale con Conversations après un enterrement (Conversazioni dopo una sepoltura), del 1987.

 

“Credo che gli autori di romanzi abbiano più difficoltà a passare al teatro. Non è facile ridurre ogni cosa a dialogo. E il dialogo ‘letterario’, il dialogo dei romanzi, oltretutto, risponde ad altre leggi. Non è pensato per essere recitato”. E’ vero: non ci avevo pensato, ma il teatro che leggiamo lo immaginiamo facilmente drammatizzato, anche senza vederlo; e forse, il piacere che proviamo a leggere una pièce, in solitudine, figurandoci su una poltroncina di velluto rosso in mezzo a una platea, nasce anche proprio da questa maniera così peculiare di stimolare l’immaginazione.

 

“Gli oggetti mi sono cari, come degli amici, nello scrivere. Con gli oggetti condividiamo la vita. Un esempio banale: il telefono cellulare”

Sarà forse una deformazione che nasce dai miei studi – anzi, forse proprio dal fatto che ho scoperto Felici i felici mentre lavoravo a una tesi su Spinoza, se il caso è davvero una delle tante vie dell’inconscio – ma accostandomi ai suoi testi mi torna spesso in mente una citazione classica dal Trattato Politico. Spinoza dice che, nel parlare degli uomini, lui non vuole ridere, né piangere, né indignarsi; ma capire. Nel caso di Reza, un buon manifesto programmatico potrebbe prevedere il riso e il pianto sì, ma sommessi. Nemmeno Reza vuole indignarsi, ma vuole, io credo, soprattutto mostrare. Mi colpisce molto il modo in cui racconta e mette a nudo le solitudini e le piccole miserie delle persone, con un tocco realistico che si mantiene lieve anche quando emerge in un conflitto (in Bella figura, per esempio, ho trovato incantevoli i personaggi di Andrea, l’amante, e Yvonne, la suocera, radicate nella vita in un modo così diverso da quello convenzionale e pavido degli altri – anche grazie, va detto, a un uso disinvolto dei farmaci). Quel che vorrei sapere è se in questa analisi così attenta dell’alterità lei abbia la sensazione di scoprire, di sfruttare e rivelare anche qualcosa di sé. Ha dei modelli per i suoi personaggi? O nascono come parti della sua immaginazione?

 

“E’ inevitabile avere dei modelli – inconsci, oppure no”, mi dice Reza. “Di solito un personaggio nasce da una mescolanza fra dei modelli reali, parti di sé stessi e altri modelli ancora, rubati alla fotografia, al cinema. Le immagini sono importanti nel mio lavoro. Sono, anzi, fra le mie fonti principali. Milan Kundera usa un’espressione che mi piace molto: parla di ‘ego sperimentali’. Esseri creati a partire da elementi non autobiografici ma molto personali, talvolta addirittura intimi”.

 

E’ evidente, in effetti, che le immagini abbiano un ruolo importante nella prosa di Reza. Ma c’è qualcosa di più: qualcosa che forse arriva molto vicino a spiegare il fascino indescrivibile di questi suoi racconti di vita. E’ una sorta di correlativo oggettivo capace di funzionare benissimo tanto nelle pièces (sia che le vediamo in scena, sia che le immaginiamo soltanto, godendo del piacere tutto speciale che dà il leggere il teatro) che nei romanzi. Ho la sensazione che gli oggetti che compaiono nelle sue opere funzionino quasi come catalizzatori emotivi. Sono semplici oggetti, eppure non sono oggetti e basta: spesso diventano epicentri di piccoli terremoti sentimentali. Penso al quadro di Arte – un quadro tutto bianco, con sottili linee verticali bianche o quasi, che uno dei tre amici protagonisti compra per una cifra esorbitante scatenando negli altri due reazioni incontrollabili – o al catalogo di Kokoschka su cui, nel Dio del massacro, una delle due madri vomita inopinatamente; ma penso anche alla valigia di Babilonia (2016), il romanzo che racconta di come un incidente possa ribaltare di punto in bianco vite perfettamente strutturate; e pure alla borsetta e all’agenda di pelle di struzzo da cui Yvonne è quasi ossessionata in Bella figura. Chiedo a Yasmina: mi sbaglio? Soprattutto, però, vorrei sapere che rapporto ha lei con gli oggetti.

 

“Gli oggetti mi sono cari, come degli amici, nello scrivere”. Non mi sbagliavo affatto. “Noi con gli oggetti condividiamo tutta la nostra vita. Sono lì dalla mattina alla sera. Non sapremmo vivere senza di loro. Un esempio banale: il telefono cellulare. E’ al centro del Dio del massacro. Potremmo quasi dire che è il protagonista. Ora, mi pare che prima di quella pièce non fosse mai stato in scena un cellulare – almeno, non uno che avesse un ruolo significativo. Il rapporto che abbiamo con gli oggetti, con gli abiti, con le medicine, definisce una parte molto importante di noi. L’interazione fra oggetti e uomini è essenziale. Ci vedo una dimensione quasi metafisica, perché ha a che fare con il tempo, l’usura, la solitudine e anche con la gioia, la frivolezza”.

 

“Credo che gli autori di romanzi abbiano più difficoltà a passare al teatro. Non è facile ridurre ogni cosa a dialogo”

E’ proprio vero; ed è probabilmente per questo che gli oggetti ci ossessionano tanto: potrebbe essere addirittura questa la chiave per comprendere come riescano i suoi testi – pur trattando spesso temi e sentimenti al limite dell’indefinibile – a conservare il potere di arrivare a un pubblico tanto vasto. Di certo Reza tiene molto all’aspetto di immediatezza e (apparente) semplicità della sua opera. Quando le chiedo se secondo lei i suoi lavori, che svelano, attraverso la lente della più segreta conflittualità fra le persone, gli arcani del prestigio (più ancora, forse, che quelli del potere), possano essere legittimamente affiliati alla grande tradizione francese della comédie des moeurs, lei frena subito il mio entusiasmo teorico: “Non ho uno sguardo critico sul mio lavoro”, mi dice. “Voglio dire, non dal punto di vista accademico o ‘culturale’. E sono piuttosto felice di conservare la mia ignoranza su questo aspetto”.

 

Ma la vastità del pubblico porta con sé una conseguenza logica e inevitabile: Reza, che è letta in tutto il mondo è tradotta in oltre 30 lingue. Non posso non chiedere, a lei che è evidentemente così attenta agli aspetti linguistici del suo lavoro, e che in ogni riga che scrive dimostra di avere un orecchio estremamente allenato e raffinato, che rapporto abbia con le traduzioni dei suoi testi.

“Le traduzioni”, mi risponde Yasmina, che fra l’altro capisce e parla anche l’italiano, “sono inevitabilmente dolorose, per la semplice ragione che è impossibile tradurre la musicalità di una lingua. So, con assoluta certezza, che se scrivessi in una lingua che non fosse il francese non scriverei nello stesso modo. Non formulerei le mie frasi con lo stesso ritmo; anzi, forse scriverei addirittura frasi del tutto diverse. Il traduttore lavora, con onestà, con l’oggetto che gli viene presentato. Non può inventarne un altro. Nel teatro poi la questione si fa ancora più delicata, perché non bisogna soltanto tradurre il senso eccetera, ma anche rendere delle intonazioni. Io scrivo un teatro pieno di non detti e di sottintesi. La mia scrittura è molto ellittica, proprio per favorire l’attore. Ed è importante restituire questa peculiare sfumatura. Su questo aspetto ho lavorato molto con Christopher Hampton, che è un drammaturgo anche lui e che ha tradotto quasi tutte le mie pièces in inglese”.

 

E’ certamente vero che il fascino della scrittura di Reza, anche in traduzione, deve molto all’alternanza fra omissioni ed epifanie; alla misura perfetta della distanza fra sguardo e personaggi. A un’attenzione elegante, mai invadente, per le vite tutte simili e tutte diverse, affollate di oggetti, di frivolezze e di disperazioni, di questi ego sperimentali, verso cui ci guida il caso – che non esiste.

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