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Il debito inestinguibile che la civiltà occidentale ha nei confronti di Kant

Giuseppe Bedeschi

Cristianesimo e secolarismo. Il nuovo libro di Marcello Pera

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Fra il 2004 e il 2015 Marcello Pera ha pubblicato un trittico dedicato al cristianesimo: nel 2004 è apparso Senza radici (in collaborazione con Joseph Ratzinger); nel 2008 Perché dobbiamo dirci cristiani; infine, nel 2015, Diritti umani e cristianesimo. “In tutti e tre questi lavori – dice Pera – ho inteso mettere in questione il secolarismo, l’idea che dalla religione si può e si deve prescindere, in particolare nel discorso pubblico”. Ora Pera fa uscire (presso Le Lettere) Critica della ragion secolare. La modernità e il cristianesimo di Kant, in cui, egli scrive, l’interesse che lo muove è lo stesso, “anche se prende forma diversa: mi propongo di andare alle origini di quella frattura fra ragione e fede – il Grande Scisma, come qui lo chiamerò – che si produsse nella cultura europea nell’età della ragione e poi dei lumi; e di esaminare il progetto – il progetto critico di combinazione, secondo la terminologia qui usata – che Kant elaborò contro tale rottura”.

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Fra il 2004 e il 2015 Marcello Pera ha pubblicato un trittico dedicato al cristianesimo: nel 2004 è apparso Senza radici (in collaborazione con Joseph Ratzinger); nel 2008 Perché dobbiamo dirci cristiani; infine, nel 2015, Diritti umani e cristianesimo. “In tutti e tre questi lavori – dice Pera – ho inteso mettere in questione il secolarismo, l’idea che dalla religione si può e si deve prescindere, in particolare nel discorso pubblico”. Ora Pera fa uscire (presso Le Lettere) Critica della ragion secolare. La modernità e il cristianesimo di Kant, in cui, egli scrive, l’interesse che lo muove è lo stesso, “anche se prende forma diversa: mi propongo di andare alle origini di quella frattura fra ragione e fede – il Grande Scisma, come qui lo chiamerò – che si produsse nella cultura europea nell’età della ragione e poi dei lumi; e di esaminare il progetto – il progetto critico di combinazione, secondo la terminologia qui usata – che Kant elaborò contro tale rottura”.

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Il libro esamina e discute, con grande perizia e grande acume, tutte le opere di Kant (dalla Critica della ragion pura alla Critica della ragion pratica, dalla Metafisica dei costumi alla Religione entro i limiti della sola ragione.) Quali sono le conclusioni alle quali Pera perviene alla fine della sua profonda e appassionata ricerca? Kant è un filosofo cristiano, che afferma il primato della ragione ma rivendica il valore della religione. Ragione e fede sono per lui due beni da tutelare congiuntamente. Se li si separa o li si pone l’uno contro l’altro, le conseguenze sono nefaste: una fede che va da sé, distrugge se stessa; una ragione che fa da sé, non soddisfa se stessa. Secondo Kant, una critica trascendentale della ragione e un’ermeneutica morale del cristianesimo possono combinare entrambi i beni. E tuttavia, ricorda Pera, il progetto di combinazione di Kant ha scontentato tutti, i razionalisti come i credenti: è stato criticato da Goethe e respinto da Leone XIII. In realtà, come ebbe a dire Giovanni Gentile, “Kant lascia nei cattolici e nei non cattolici, e nei razionalisti, un’insoddisfazione tormentosa, che è vano dissimulare”.

 

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Questa reazione, di approvazione e delusione insieme, è (fa rilevare Pera) comprensibile e motivata. Infatti, da un lato Kant compiace i secolaristi, perché, quando si tratta di giustificare pretese conoscitive e di senso, compresa l’esistenza di Dio, egli confida solo nella ragione, e conclude che Dio non si può conoscere; dall’altro lato egli delude i secolaristi, perché, quando si tratta di valutare i poteri della ragione, egli sostiene che essa non può fare tutto da sé e conclude che dalla fede in Dio non si può prescindere.

 

L’ambiguità di Kant nasce dal suo accoglimento del primo dogma del cristianesimo, il peccato originale. Benché del “male radicale”, come egli lo chiama, non si possa fornire deduzione razionale né prova empirica, esso non può essere negato, perché i suoi effetti sono sotto gli occhi di tutti. Ma come può questo genere di male essere comprensibile alla ragione? Di più: nel cristianesimo il peccato originale richiama la grazia di Dio quale suo rimedio. Ma come può la grazia di Dio trovare spazio nel sistema della ragione?

 

Kant, dice Pera, si trova di fronte a un dilemma: o la morale “basta a sé stessa”, come vuole il suo razionalismo, e allora non c’è bisogno della grazia, oppure c’è bisogno della grazia, come chiede il cristianesimo (e come lo stesso Kant afferma a chiare lettere nella Religione entro i limiti della sola ragione), e allora la ragion pratica è incompleta. Kant non può accogliere solo il primo corno del dilemma, perché, quale angelo caduto, l’uomo sa quel che deve ma non può quel che sa; ma Kant non può neppure accogliere solo il secondo corno del dilemma, perché, se il compimento del dovere da parte dell’uomo richiede la cooperazione di Dio, il merito o il demerito morale non è più a lui solo imputabile. Così Kant si trova ad oscillare, e da questa oscillazione nasce la sua ambiguità. Se Kant è “tormentoso”, è perché il tormento è nel suo pensiero.

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Ma, fa osservare Pera, non solo nel suo pensiero: “È dal seno stesso del cristianesimo che nasce il problema. Come si salva l’uomo? Mediante i suoi sforzi, di cui Dio gli rende merito? Mediante la grazia, perché agli occhi di Dio egli non ha merito? O mediante un concorso di meriti e grazia, perché questa è premio di quelli? Su questo tema cruciale il cristianesimo si è sempre diviso, fra Agostino e Pelagio, Erasmo e Lutero, la Riforma e la Tradizione. E ancor oggi, sul tema, il cattolico si divide dal protestante senza però che nessuno dei due abbia in casa propria una risposta che non sia oscillante o faticosa come quella di Kant. (…) Il tormento continua”.

 

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Ma c’è un punto assai importante, che non deve essere perso di vista, e che è messo in rilievo efficacemente da Pera: Kant fece della moderazione un tratto distintivo della civiltà europea. “La ragione – scrisse il filosofo tedesco – ha universalmente (sebbene non dappertutto) accettato, in tutti i paesi d’Europa, con l’ausilio di veri uomini religiosi, dapprima il principio fondamentale della giusta moderazione nei giudizi su tutto ciò che va sotto il nome di rivelazione. […] La cosa più ragionevole e giusta secondo il suddetto principio è di usare ulteriormente questo libro [la Scrittura], dal momento che c’è, come base dell’insegnamento ecclesiastico, e di non diminuirne il valore con attacchi inutili e animosi, senza tuttavia imporre a nessuno la fede in questo libro, come condizione di salvezza”.

 

In molte parti del mondo, questi “attacchi inutili e animosi” al cristianesimo continuano oggi, sempre più virulenti. In questo quadro Kant ci è ancora di grande aiuto. Egli ci ricorda che fanatiche diventano quelle religioni che non superano l’esame della ragione, e fanatismo di altra specie non meno pericolosa diventa anche quel secolarismo che pretende di parlare solo in nome della ragione. La ragione secolare, ci direbbe Kant, ci consente sì di autoilluminarci, di liberarci, di convivere più virtuosi, di far progredire l’umanità, ma solo alla condizione che riconosca la fede come bisogno della ragione, e apprezzi il cristianesimo come amabile, liberale, soddisfazione di questo bisogno.

 

Con queste parole Pera non poteva esprimere meglio il debito intellettuale inestinguibile che la civiltà occidentale (e non solo essa, naturalmente, ma essa in primo luogo) ha verso il filosofo di Königsberg.

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