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La Rai sono stato io

Salvatore Merlo

Renzi e Fanfani, papaveri e Papi. Ecco l’Italia (non solo) catodica di Ettore Bernabei. “Noi della Fuci fummo selezionati come cavalli da corsa. Montini, prima di diventare Papa, creò la classe dirigente Dc”

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Solleva con precauzione un biscotto, e lo lascia cadere nella tazza da tè. “Il guaio della politica in Rai non sono le raccomandazioni. Il guaio è se rimangono ‘solo’ le raccomandazioni, e nessuno pensa più al prodotto. Eliminare l’istituto della raccomandazione sarebbe come cancellare l’umanità”, dice con ironia. “Quando Gesù scelse i suoi dodici apostoli, e fu una selezione difficile, due di loro si fecero raccomandare dalla mamma per avere un posto in paradiso”. E allora sorride, come a un ricordo lontano. “Quando divenni direttore generale della Rai, nel 1960, dopo qualche tempo decisi di costituire un ufficio che si occupasse delle raccomandazioni. Mi arrivavano ogni anno tra le diciassette e le diciottomila segnalazioni. Sei impiegati le raccoglievano, le catalogavano comunicandomi poi i segnalati e i segnalatori… Gli impiegati rispondevano a tutti. E in certi casi intervenivo personalmente”. E chi portò alla Rai? “Assunsi Enzo Biagi e Arrigo Levi… il sovrintendente di quel tempo alla Scala, il maestro Siciliani. Chiamai tutti i più eminenti registi di allora a collaborare. L’unico che accettò fu Rossellini, che fece per noi degli sceneggiati mirabili: ‘Gli atti degli apostoli’, e una vita di san Francesco. Solo molto tempo dopo vennero Zeffirelli e Fellini, che fece ‘i clown’ e poi quella meraviglia di ‘Prova d’orchestra’, che però fu girata quando ormai io me ne ero già andato. Un giorno la segretaria mi avvertì che al telefono c’era un certo signor Ingmar Bergman. Mi spiegò in francese che voleva fare per la Rai un film sulla Passione di Cristo. Pur vantando che era protestante, e che la sua visione della Passione sarebbe stata diversa da quella cattolica, gli dissi che il film lo volevo fare. Mi ricordo che ne parlai anche in segreteria di stato con il cardinale Benelli, uomo d’intelligenza acuta, un po’ Mazzarino e un po’ Richelieu. Purtroppo però Bergman si ammalò ai polmoni e non se ne fece più niente”. Lei assunse Renzo Arbore.

 

“Era un giovane che si cimentava nei piccoli teatri delle province pugliesi, che faceva imitazioni ed era molto bravo. Fu una zia di mia moglie a farmi sapere di quel ragazzo. E guardi un po’ che carriera che ha fatto poi, per decenni. Un uomo di cultura e di valore”. E Bernabei non mi racconta di come conobbe il suo futuro genero Giovanni Minoli. Un giorno gli telefonò il professor Eugenio Minoli, il padre di Giovanni, l’inventore dell’arbitrato internazionale, uomo fuori scala, amico di Dossetti e di La Pira nonché amico suo, e gli disse che di sette figlioli che aveva ce n’era uno, come spesso capita, molto dotato, che era andato a studiare a Parigi con una borsa di studio della Fondazione Agnelli, e che si era fidanzato con una signorina francese molto ricca, figlia di un industriale che non aveva eredi maschi e che si proponeva di lasciargli le redini dell’azienda. Il professor Minoli era preoccupato dalla situazione, e sapendo che il ragazzo era attratto dalla tivù, chiese a Bernabei di trovare il modo di riportare suo figlio in Italia. Allora lui convocò Giovanni, ci parlò, e poiché era in gamba cominciò a farlo collaborare, finché moltissimi anni dopo, quando Bernabei era ormai andato via, Minoli non venne assunto. “Gli uomini bisogna saperli scegliere. E per fare la televisione bisogna sceglierli tra quelli che la sappiano pensare”.

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Vestito d’un abito grigio irreprensibile, scarpe nere, la doppia fede al dito da vedovo, e il dettaglio quasi cardinalizio d’una coppia di calzini bordeaux – “ho il pallino d’abbinare i calzini al colore della cravatta” – Ettore Bernabei parla con lentezza. “Ma non si allarmi. Sono stato sempre a lenta carburazione anche quando ero giovane”, scherza. E infatti ha novantaquattro anni, ma ne potrebbe anche avere venti di meno. “L’anno scorso mandai a Renzi un appunto sul servizio pubblico”, racconta, con il suo accento ancora, malgrado i sessant’anni vissuti a Roma, fortissimamente fiorentino, una lingua costellata di toscanismi. “Era un intervento che feci il 23 giugno del 2014 a un convegno organizzato dall’associazione dei dirigenti Rai. Poiché forse non erano bischerate, mi suggerirono di trasmetterlo a Renzi, e così feci. Renzi poi mi rispose con uno scritto di suo pugno nel quale definiva il mio appunto lucido e lungimirante”.

 

Renzi dice di voler fare una Rai divulgativa. “Anche la Rai degli anni Sessanta e Settanta cercava di esserlo”, esclama Bernabei, con un tono di morbida rivendicazione. “Ma penso che la Rai di Renzi, per come la sta descrivendo in questi giorni, possa essere più significativa anche di quella degli anni Sessanta, se sarà di vero servizio pubblico come la Bbc, cioè di vigile e vigorosa tutela dei legittimi interessi culturali, economici e politici di tutti gli italiani, rispettando i legittimi interessi degli altri, ma respingendo attacchi e raggiri indebiti”. E la sua Rai, la Rai di Bernabei com’era? “La Rai di Angelo Romanò, di Pier Emilio Gennarini, Di Furio Colombo, di Arrigo Levi, non solo la mia”, risponde lui, con fanfaniana, allargata modestia. “Era una Rai dove c’era spazio e rappresentanza per tutte le voci della cultura e della politica italiana. A quel tempo, i tempi di Fanfani e del centrosinistra, noi non facevamo finta di litigare come certi inciucisti della Seconda Repubblica”, dice Bernabei riferendosi probabilmente a Berlusconi e D’Alema, “che di mattina facevano baruffa e la notte si spartivano il bottino.

 

Quella degli anni Sessanta era una Rai che cercava di rispettare tutti. Noi pensavamo il prodotto; un buon prodotto era la nostra principale preoccupazione. Ci ponevamo continuamente il problema: ‘Ma la gente come interpreterà questa cosa?’. Vede, anche un sorriso, una battuta, in una fiction o in un varietà, sono un messaggio, un commento, un comizio. Era una televisione che aveva per obiettivo quello di aiutare gli italiani. Oggi in Europa esistono tanti esempi di servizio pubblico. Il più efficiente è probabilmente la Bbc, in Inghilterra. La Bbc ha uno scopo: difendere gli interessi delle isole della Gran Bretagna. In Italia ci vuole qualcosa che dia un amalgama, un senso di appartenenza a tutta la nostra popolazione: quella operosa che cerca di uscire dalla crisi, quella litigiosa, divisa e per certi versi presuntuosa. Quando si è senza identità, ci si fa spolpare dagli stranieri, come in Italia è avvenuto negli ultimi vent’anni, con le privatizzazioni, le svendite di stato, le paure, lo spread… Gli stranieri non stanno fermi e non si danno le martellate sulle ginocchia come facciamo noi, capiscono che la nostra debolezza è principalmente una debolezza mentale, un’imbecillità identitaria, in senso letterale. Per questo in un paese che vuole essere sovrano in casa propria, ci vuole anche un servizio pubblico televisivo che funzioni”.

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Le pareti dello studio di casa Bernabei, in questo palazzo degli anni Trenta sulla via Flaminia, “è il primo palazzo in cemento armato costruito da Marcello Piacentini”, sono foderate di libri, iscritte dunque in un rettangolo di carta rilegata e di legno color noce, la grande libreria e i mille volumi: ci sono le annate del Popolo, il giornale della Dc di cui Ettore Bernabei è stato direttore, dal 1956 al 1960. E poi ci sono quelle del Giornale del Mattino, la sua prima direzione, dal 1951 al 1956: “Quel quotidiano nacque a Firenze dalle ceneri della Nazione del popolo, dove fui chiamato nel 1945 da Vittore Branca che mi salvò così da una carriera da dirigente alla Fondiaria assicurazioni. Lì c’era il meglio della cultura politica fiorentina. Ci lavorava Romano Bilenchi, per il Pci. E poi Giovanni Pieraccini per il Psi, che divenne molti anni dopo anche ministro, e poi Manlio Cancogni, per il Partito d’Azione con Carlo Cassola, e Hombert Bianchi e Sergio Lepri per il Partito liberale”.

 

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[A un certo punto noto che su uno scaffale fa capolino un libro di Fabio Volo, addirittura annotato, con dei segnalibro che sbucano da ogni parte. “L’ho letto per curiosità, volevo capire cos’è la narrativa contemporanea che vende, quella che fa numeri”. E cos’è? “E’ il nulla dell’esistenzialismo. L’espressione di una società che vive il momento, non sa niente del passato e non si pone il problema dell’avvenire”. Recensione perfetta]

 

A completare l’arredamento caldo dello studio ci sono poi le foto dei cinque ultimi Papi che si affacciano dagli scaffali della libreria. “La foto di Giovanni Paolo II me la fece avere il cardinal Casaroli che, come segretario di stato, mi aveva chiesto per il nuovo Papa un quadro sintetico della situazione politica italiana. Ma a Wojtyla non interessava molto la politica italiana. Preferiva concentrarsi sui grandi rivolgimenti internazionali. La foto di Giovanni XXIII invece me la fece avere il Papa in persona con dedica di suo pugno, dopo che in un udienza gli avevo detto che avrei battezzato il mio settimo figlio con il nome di Giovanni. Frequentavo Roncalli dalla fine degli anni Quaranta, da quando era Patriarca a Venezia. Me lo fece conoscere La Pira”. E mentre parla di La Pira, Bernabei assume un sorriso deferente e raccolto. “Spesso in quei colloqui veneziani La Pira prospettava visioni quasi profetiche sul futuro della chiesa dopo un grande concilio”.

 

E Bernabei, nato del 1921, è il prodotto di una cultura, di una scuola, di un progetto politico e se vogliamo persino egemonico nell’Italia del Dopoguerra: “Noi della Fuci fummo selezionati come cavalli da corsa”, mi dice. “Fu Montini, prima di diventare Papa, a curare la formazione di una futura classe dirigente della Dc. E infatti fu lui a volere che don Bensi, il mio maestro a Firenze, andasse a insegnare nei licei per selezionare e indirizzare i giovani. Tutti i parlamentari e tutti i ministri della Dc venivano dalla Fuci o dall’Università Cattolica di Milano. Due intuizioni di Montini, che era un genio d’architetture politiche”. A Firenze, a casa di don Bensi, poco più che sedicenne, assieme ad altri ragazzi, Bernabei dunque conosce La Pira. “La sera don Bensi riuniva alcuni dei suoi allievi e gli faceva trovare, per addestrarli, uomini di sapienza giuridica come La Pira, ma poi anche professori dantisti, filosofi, un meglio dell’Italia di allora: La Manna, Pasquali, Momigliano… Ci si abituava a sostenere conversazioni con persone più colte e più esperte di noi”. E poi si veniva lanciati nel mondo, nelle aziende di stato, in Parlamento, nella scuola e nell’università: classe dirigente cattolica.

 

Bernabei fu uno degli uomini più vicini a Fanfani, toscano come lui, che lo volle alla guida della Rai. “La maggiore affinità politica io l’avevo con Fanfani, anche se ho collaborato con tutti i presidenti del Consiglio in quegli anni, dal 1960 al 1974, che non furono pochi. Da Aldo Moro a Giulio Andreotti. Ma con Fanfani avevo un rapporto speciale. Venuto a Roma, con La Pira parlavamo spesso al telefono. E siccome sapevamo d’essere intercettati dai servizi segreti, non solo da quelli italiani, quando ci riferivamo a Fanfani, usavamo una parola in codice: lo chiamavamo ‘Enea’, da Enea Silvio ‘Piccolomini’”. E qui Bernabei si mette a ridere. “Vede, Fanfani era alto un metro e cinquanta. Per non ricorrere all’allora abusato termine di piccoletto, pensammo di far riferimento a Piccolomini. Noi a Fanfani volevamo bene, ma senza la devozione carismatica che oggi certi collaboratori provano per i leader del loro partito. Io la sera finivo di lavorare verso le 21 e 30. Sapevo che Fanfani cenava intorno a quell’ora, così verso le 22, prima di andare a cenare io, passavo a casa sua, nel suo appartamento sulla circonvallazione Clodia. E per prima cosa gli dicevo quello che avevo saputo durante la giornata. I politici veri hanno per prima cosa bisogno di informazioni. Dunque gli raccontavo tutte le cose che ritenevo potessero essere utili per lui. Poi gli dicevo quello che avevo fatto in azienda, e quello che mi proponevo di fare. Dagli atteggiamenti della sua faccia cercavo di capire cosa ne pensasse. Il che non era sempre facile. Ma almeno indicativo: perché lui non dava mai disposizioni. Le udienze con Fanfani, anche per i ministri, non duravano mai più di quindici minuti.  Lui preveniva i suoi interlocutori, era spiccio, spesso capiva d’intuito quello che l’interlocutore voleva dirgli”.

 

E risatine perlate, sospiri evocativi, piccoli squilli ironici, tutto questo passa nella voce di Ettore Bernabei mentre mi racconta la sua vita. “Nei giorni della crisi missilistica di Cuba, era il 1962, mi trovavo a Washington per firmare assieme ad altre trenta emittenti televisive un accordo con la Nasa per l’uso televisivo dei satelliti intercontinentali. Ma al ministero degli Esteri, dove era prevista la cerimonia della firma, ci fecero vedere alcuni filmati ripresi da satelliti sulle postazioni sovietiche a Cuba di missili atomici puntati sugli Stati Uniti. Tornato in albergo ricevetti una  telefonata da Hombert Bianchi, portavoce di Fanfani, che mi chiamava da una cabina telefonica stradale per comunicarmi che: ‘Enea’, cioè Fanfani, voleva che mi trattenessi a Washington trasferendomi all’albergo Four Seasons. ‘Sarai contattato da un diplomatico di nome Lister’, mi disse. E in effetti il giorno dopo il portiere mi avvertì che alla reception c’era il signor Lister. Il misterioso visitatore mi disse che lavorava al dipartimento di stato ma che in quel momento rappresentava esclusivamente il presidente Kennedy che aveva bisogno di contattare riservatamente – mio tramite – il presidente Fanfani. E così fu. La crisi con Kruscev, per la cui soluzione anche Giovanni XXIII ebbe un ruolo di primo piano, fu risolta in quei giorni smobilitando i missili puntati a est che la Nato aveva in Italia”.

 

E c’è sempre il Vaticano di mezzo, nella lunga vita di quest’uomo. Allora gli chiedo se la sua fosse una famiglia tradizionalmente cattolica, come immagino che fosse. Ma lui risponde di no. “Quella di mio padre era una famiglia di repubblicani, garibaldini e anticlericali dello stato pontificio. Provenivano da Castrocaro e poi si erano trasferiti a Forlì. Pensi che mio nonno aveva fatto la guerra di Crimea, con Garibaldi. E lì aveva visto che c’era il petrolio. L’olio nero affiorava dalle viscere della terra, non c’era nemmeno bisogno di scavare per raccoglierlo. E infatti mio nonno e suo fratello, dopo la guerra, decisero d’aprire un’attività d’importazione dalla Crimea, e divennero molto ricchi, salvo poi perdere quasi tutto perché si erano montati la testa come capita spesso ai parvenù. Ma rimasero sempre anticlericali. Le mie zie si chiamavano Prima, Seconda, Terza… e pure gli zii. Il nonno non voleva nomi di santi per i suoi figli. Così, per esempio, mio padre si chiamava Quarto, ma non perché fosse il quarto figlio, era l’undicesimo. Fu chiamato Quarto in ricordo di un altro figlio, il vero Quarto, che era morto precocemente. A quattordici anni mio padre si confessò monarchico e credente a suo padre, che lo cacciò di casa. Ed è così che io sono nato a Firenze e cresciuto con un’educazione cattolica”.

 

E malgrado il suo cattolicesimo convinto, Bernabei tolse le lunghe gonne alle ballerine televisive, “le sottane arrivavano fin sotto le caviglie”, e lanciò in televisione le gemelle Kessler, primo sogno erotico degli italiani. Una cosa ai limiti dello scandaloso. “Ma non c’era volgarità, quelle gambe in calzamaglia erano un capolavoro un po’ platonico, avevano la stessa estetica che può avere, chessò, la statua della Venere di Fidia. Di modo che poi ciascuno degli italiani, fra i telespettatori, si accontentasse delle gambe storte e con la cellulite della propria moglie o compagna”. E qui Bernabei mi fissa con cupa energia, per la prima volta alza anche il tono della voce. “Le cosce e le natiche al vento delle televisioni commerciali di oggi sono un’altra cosa”, dice. “E non mi piacciono. Le gemelle Kessler mandavano gli italiani a dormire tranquilli, gli italiani che poi dovevano votare. Le Veline invece fanno venire voglia di dargli un morso. Ma poiché poi, in realtà, non c’è nulla da mordere, la gente si arrabbia”.

 

Gli anni Cinquanta e Sessanta furono anni di grande modernizzazione per l’Italia, gli dico. “Avevamo lavorato tutti per il Boom. Tutti. Comunisti e liberali, socialisti e democristiani. Quindici anni di lavoro convinto e a testa bassa. Oggi l’Italia è un paese che si è afflosciato per troppo benessere, per la vita facile. Noi siamo stati una generazione che ha vissuto la guerra e la fame. E non lo dico con nostalgia, io non penso che il passato sia meglio del presente. Voglio solo dire che non volevamo più conoscere la miseria. Per questo lavorammo tanto, e l’Italia divenne il quarto paese più industrializzato della terra”. Eppure non è mai diventato quel che si può definire un paese normale, obietto. E allora Bernabei dimostra per l’Italia un affetto ironico e neghittoso. Nei suoi ricordi, nei suoi racconti, emerge una certa inadeguatezza umana che però sempre diventa risorsa. Bernabei da cattolico la chiama “provvidenza”, ma è la stessa trama, la stessa anima che i laici Montanelli e Prezzolini riconoscevano nel loro paese. “Perdemmo la Seconda guerra mondiale, la perdemmo male, e fu meglio così”, dice. “Da sergente fui inviato in Montenegro a difendere le bocche di Cattaro, ero poco più che maggiorenne, uno studente universitario. Ma gli strateghi italiani, che la guerra non sapevano farla, anziché farci appostare sulle alture ci misero a valle. E lì prendemmo tante batoste dai partigiani montenegrini. Tornato in Italia, in Toscana, da sottotenente, dopo la scuola allievi ufficiali a Palermo, ci dissero che saremmo partiti per l’Africa. Ci dettero delle divise di tela, dei caschetti coloniali… Ma nel frattempo la Libia fu perduta. E ci dissero che saremmo dovuti andare in Russia con lo stesso equipaggiamento”. 

 

Così, nelle sue parole, gli anni Cinquanta e Sessanta diventano quasi una parentesi nella storia d’Italia, tra un disastro e l’altro, tra la Seconda guerra mondiale e la crisi degli anni Novanta e Duemila: “Un paese che ha vissuto gli ultimi trent’anni di spasmi e guerre intestine, tra fantomatici terrorismi e Mani pulite, crisi economica e assenza di adeguata visione politica, è un miracolo che ci sia ancora. Pensi lei quanto siamo forti per aver sopportato per trent’anni la destabilizzazione. Con Renzi, forse, adesso s’intravede una via d’uscita”. Allora gli chiedo quanto ci sia di Fanfani in Renzi, lui che è toscano e cattolico com’era toscano e cattolico Fanfani, lui che si circonda di toscani come anche Fanfani era circondato da toscani. “Qualcosa”, dice: “L’energia. Fanfani era uno che comandava sul serio. Da segretario della Dc era deciso a cambiare il partito, che fino ad allora era stato dopolavorista e volontarista. Costruì un partito organizzato, strutturato, con funzionari permanenti come nel Pci”. Ma il modello di Fanfani era il centrosinistra, il modello era la Rai, un’azienda guidata da un decisionista, ma nella quale pure collaboravano tutti, anche quelli con i quali i democristiani non erano d’accordo. Chissà se anche Renzi ha un’idea di equilibrio, tra decisionismo e pluralismo.“Per i primi nove anni dovetti convivere anche con la vecchia dirigenza che proveniva dell’Eiar, dall’epoca fascista”, ricorda Bernabei. “Nel 1962 cercarono in ogni modo di licenziarmi per via di un sketch televisivo di Ugo Tognazzi che imitava il presidente della Repubblica Gronchi mentre cadeva da una sedia. Ma non ci riuscirono. La Dc, al di là delle correnti, non mi fece mai mancare il suo appoggio. E soprattutto mi sostenne sempre il mondo cattolico. Con Montini, il futuro Paolo VI, avevo rapporti che risalivano al 1947”. E quella Rai era l’azienda che Bernabei fu chiamato a dirigere, mi racconta, perché “Fanfani intuì che quel giornalismo che facevo a Firenze, al Giornale del Mattino, quel giornalismo aperto e collaborativo, assieme ai socialisti, ai liberali, a quelli del Partito d’Azione, sarebbe potuto essergli utile anche a Roma, nella televisione”. E insomma la Rai di Bernabei era la Rai di un uomo solo, eppure era anche la Rai di tutti. E quella di Renzi che televisione sarà? “Lo vedremo presto”, dice Bernabei, che per Renzi ha molta simpatia. Lo lascio così, mentre si è sollevato dalla poltrona, e in piedi come un giunco oscillante mi comunica d’essersi un po’ stancato. In Renzi lui non vede una deformazione del futuro, ma forse un quieto ritorno al passato.

 

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio 2014), Ezio Mauro (22 febbraio 2014), Giancarlo Leone (1° marzo 2014), Flavio Briatore (7 marzo 2014), Fedele Confalonieri (15 marzo 2014), Giovanni Minoli (29 marzo 2014), Luca di Montezemolo (3 aprile 2014), Urbano Cairo (10 maggio 2014), Claudio Lotito (2 luglio 2014), Giovanni Malagò (26 luglio 2014), Beppe Caschetto (9 ottobre 2014), Bruno Vespa (29 novembre 2014), Vincino (10 gennaio 2015), Marco Carrai (13 febbraio 2015)

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