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Chi ha ucciso Willy l’avrebbe fatto comunque, anche senza conoscere il karate

Giulia Pompili

Se avessero davvero praticato lo sport, non lo avrebbero ammazzato di botte. L’Mma spiegata a chi non ne sa niente

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All’inizio della pratica il principiante è inconsapevole. Chi ha appena iniziato a fare uno sport da combattimento non sa che l’avversario non è quello che gli si presenta davanti. E’ se stesso. Per i primi anni funziona così: l’adrenalina annebbia tutto, prende il posto della razionalità, e quindi della tecnica. L’allenamento, e quindi il sacrificio, non riguarda l’eseguire un punto ma creare le condizioni per farlo. Più la furia agonistica si sostituisce alla razionalità, più il combattimento è inutile: non solo al punto non ci si arriva, ma ci si fa male, e si perde. Ecco il combattimento contro se stessi, che spesso dura una vita intera: allenarsi a controllare l’istinto, altrimenti si perde la testa.

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All’inizio della pratica il principiante è inconsapevole. Chi ha appena iniziato a fare uno sport da combattimento non sa che l’avversario non è quello che gli si presenta davanti. E’ se stesso. Per i primi anni funziona così: l’adrenalina annebbia tutto, prende il posto della razionalità, e quindi della tecnica. L’allenamento, e quindi il sacrificio, non riguarda l’eseguire un punto ma creare le condizioni per farlo. Più la furia agonistica si sostituisce alla razionalità, più il combattimento è inutile: non solo al punto non ci si arriva, ma ci si fa male, e si perde. Ecco il combattimento contro se stessi, che spesso dura una vita intera: allenarsi a controllare l’istinto, altrimenti si perde la testa.

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Non a caso se durante un combattimento un praticante esulta, o si lascia andare a un gesto di stizza, viene sanzionato. Le arti marziali hanno una tradizione antichissima – e non solo a oriente – perché sono sempre servite a costruire il carattere della persona che le pratica. Un uomo che si è elevato a un grado superiore lo ha fatto perché ha studiato, sa controllare il suo temperamento, è disciplinato, umile, giusto. In ogni arte marziale l’avversario si saluta due volte, prima e dopo il combattimento. E non è cerimonia.

 

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Tutte le discipline che finiscono con il suffisso -do (come ju-do, ken-do, kyu-do) in giapponese sono una “via”, una strada da percorrere per tutta la vita. Uno dei concetti più difficili da afferrare è quello giapponese di “mushin” (ma parole simili che hanno lo stesso significato ci sono in cinese, coreano, vietnamita) e vuol dire: con la mente vuota. E’ l’esatto opposto del nostro “perdere la testa”: allenarsi a svuotare la mente durante un combattimento, nelle arti marziali, vuol dire non essere preda degli istinti, ma essere naturalmente predisposto alla comprensione dell’altro, della situazione, della quotidianità. Si parla di un combattimento, ma anche di un esame all’università, di un colloquio di lavoro, di un affare amoroso. Vi sembra una attività esotica e anacronistica? Non lo è.

 

Anche le arti marziali si evolvono: negli ultimi anni perfino i puristi giapponesi hanno trasformato le tecniche di allenamento per avvicinare i ragazzi alla disciplina, rendendo il concetto di “marzialità” molto più gioioso e allegro. Ci si deve divertire, ripetono i maestri. Le federazioni internazionali nel tempo hanno preso il meglio delle arti marziali e l’hanno tradotto nelle discipline da combattimento più sportive e occidentali. Per esempio la boxe, che ha una sua identità e una sua tradizione (e che somiglia moltissimo alle arti marziali), ma perfino la famigerata Mma (Multi martial art) – uno sport recente che ruba le tecniche di varie discipline per arrivare alla sottomissione dell’avversario, considerata in passato la feccia degli sport da combattimento perché non sufficientemente pura – negli anni si è trasformata, ripulita, si è elevata a uno sport come un altro.

 

Oggi i lottatori di Mma hanno contratti di sponsorizzazione con le firme più mainstream, fanno gli influencer su Instagram e raccontano i loro pasti healthy, i loro allenamenti; il combattimento è per lo più una grande metafora di come si affronta la vita: imparando a incassare i colpi senza arrendersi. Una attività violenta ma che ha come scopo il controllo della violenza, insomma un modo per disinnescarla.

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Ecco: i criminali sono un’altra cosa. E’ difficile intuire la differenza se non si ha dimestichezza con gli sport da combattimento, perché tutto diventa stereotipo: i picchiatori palestrati, tatuati, che impongono la propria legge animalesca alla strada, hanno i muscoli esattamente come i campioni di tiro a segno hanno le armi da fuoco. Certo, il contesto è importante: non è un segreto che in Italia la criminalità si sia spesso appropriata del culto del corpo e del marzialismo, trasformando alcune palestre in campi di rieducazione. Ma sono sempre di meno, quei posti lì, e comunque hanno poco a che fare con le arti marziali e con lo sport, più con le procure. La richiesta di bandire del tutto certi sport, invece, suona vagamente illiberale, ed è l’istinto di chi criminalizza il tutto perché non riesce a uscire dalla trappola dello stereotipo. Ma chi ha ucciso sabato notte a Colleferro il ventunenne Willy Monteiro Duarte l’avrebbe fatto comunque, anche senza conoscere il karate.

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