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Il rumore della guerra

Viaggio ad Aviano, little Usa friulana, dove si ascoltano gli F16 per capire come va a Kyiv

Valerio Valentini

La base aerea e l’umanità che gira intorno, la cuccagna friulana degli anni 70 e l’americanizzazione della provincia da museo. Qui il rombo degli F-16 dice come vanno le cose in Ucraina

Che le cose in Ucraina si stessero mettendo male, la cameriera del Bar Sport, in piazza Duomo, lo ha capito “dall’intensificarsi dei rombi”. Sono gli F16 americani che decollano, il trentunesimo stormo, che fanno esercitazioni o che vanno chissà dove, “e da settimane sono sempre più attivi”. Al sindaco Ilario De Marco una certa preoccupazione sul precipitare degli accidenti a Kyiv gli è venuta quando ha visto aumentare con ritmi insoliti le richieste di prenotazione delle strutture ricettive da parte del comando americano della base: “Segno che molti soldati stavano arrivando”. Quanti, con esattezza? Difficile dirlo, perché il numero è variabile e comunque riservato. “Circa cinquemila. Non come ai tempi dell’Iraq, ma comunque alto”. Elisabetta il nervosismo crescente l’ha colto invece nella concitazione delle mamme dei suoi alunni. “Molti loro mariti da qualche settimana sono stati trasferiti in Polonia e Lettonia, e così a riprendere i bimbi vengono sempre loro”. Elisabetta ha 29 anni, e lavora all’asilo americano dal 2018. E sarà pure che il livello di allerta in aeroporto è ancora basso (livello “Bravo”, poca roba), ma certe ansie, certe allusioni, lei ha imparato a coglierle. 

 

Insomma più che interrogarli, gli americani, qui ad Aviano li si interpreta. I grandi eventi che questi militari, o almeno i loro comandanti, maneggiano in gran riservatezza, la gente di qui – novemila persone nella fu provincia di Pordenone, terra di pianure e di guarnigioni militari – li intuisce ma non li afferra, li vede passare sulle proprie teste ma troppo lontani per essere visti davvero, come i caccia che decollano in continuazione. Loro, del resto, gli americani, non sembrano avere una gran voglia di parlare. Non di guerra, almeno. I più esperti neppure si lasciano avvicinare. Coi giovani, che poi sono la maggioranza, è più facile, ma solo fintantoché ci si tiene sul vago.

 

La sera bazzicano ancora al California, il loro pub prediletto che sta in centro, a gruppetti di tre o quattro, riconoscibili senza timore d’errore per i pantaloncini corti – qui ci saranno non più di dieci gradi – e per le ciabatte portate con disinvoltura con sotto i calzini, quasi si sforzassero di aderire allo stereotipo. E continuano a farlo, a macinare cliché, anche quando gli chiedi come mai proprio qui, in questo angolo remoto di triveneto. “Be’, ma perché è un’occasione unica”, afferma Tyler, ventitreenne di Orlando, Florida. “L’Italia, tutta la vostra storia, la vostra bellezza”. “Sì, certo, è un po’ faticoso abituarsi al fatto che alle otto di sera è tutto chiuso”, aggiunge Alex, texano, col suo Moscow Mule in mano al bancone del bar. “Però dai, con un’ora e mezza di treno sei a Venezia. Vai a Milano in giornata, puoi farti il fine settimana a Roma”. Più che in missione militare, sembrano in Erasmus. E però appena li si sollecita su Putin, acquisiscono il rigore che ci si aspetterebbe. “Siamo qui per fare il nostro lavoro, siamo stati addestrati per questo”. Insomma, la distanza c’è, esiste. E finita la bevuta, loro tornano nel dormitorio, e i civili circolare.

 

Non è sempre stato così, però. “Fino a venticinque anni fa la comunità americana era molto più integrata”, ricorda Carlo Tassan Viol, vecchio democristiano di sinistra, una vita intera dedicata alla politica e di Aviano che s’è rimesso ancora una volta in moto, nonostante la pensione, in vista delle elezioni comunali di metà giugno. “Le occasioni d’interazione, in effetti, c’erano soprattutto la sera”. Quando i militari uscivano dalla base e assaltavano i tanti locali creati apposta per loro da intraprendenti ristoratori friulani che avevano capito prima di altri quanto potesse essere remunerativa la nostalgia, e con essa la contraffazione. Per cui a partire da metà anni Settanta sorsero un po’ dovunque pub e pizza espresso, fast food con mobilio riprodotto sul modello dei film di Hollywood, tutto un proliferare di menù American sounding cucinati dalle massaie di Polcenigo e Roveredo in Piano.

E infatti, pur essendo quel borgo che è anche ora, all’epoca Aviano era il centro di gravità della provincia, ci venivamo perfino da Pordenone”, ricorda Sergio Bolzonello, che dell’ex capoluogo è stato sindaco per dieci anni. “Spesso ci scappava anche la scazzottata, visto che i soldati erano sempre molto eccitati e noi locals non volevamo sfigurare”. “Noi ad Aviamo andavamo perché ci aprì il primo bowling. Era l’unica America che a 15 o 16 anni ci era dato di toccare con mano”, dice Sandro Del Puppo, professore di Storia dell’arte all’Università di Udine, che coi suoi amici, e siamo già nei pieni anni Ottanta, qui ci veniva da Vittorio Veneto. “E le nostre amiche che a noi ci schifavano perché eravamo paesanotti, facevano gli occhi languidi a questi bellimbusti americani, tutti alti, tutti muscolosi, tutti dispensatori di chi sa che altrove. E se ne innamoravano, a volte. E se li sposavano, perfino, convinte di fuggire così dagli orizzonti ristretti di Sacile o di Conegliano. Salvo poi ritrovarsi a fare le casalinghe in una qualche squallida città dell’Iowa”. 

 

Poi le cose sono cambiate. “La mia maestra di pianoforte era italoamericana, e il saggio di fine stagione lo facevamo tutti lì, all’aeroporto”, ci dice Marco Gabelli, ingegnere quarantenne, fondatore dell’associazione culturale cattolica “Laudato Sì”. “Avrò avuto vent’anni, forse diciotto, quando tutto è finito”. Il 2001, certo, ma non solo. C’è che negli anni Novanta la base di Aviano vive la sua fase di maggiore attività: di qui partivano i caccia per bombardare in Bosnia prima, e in Kosovo poi. “Risale a quella fase il momento in cui qui ad Aviano scoprimmo dell’esistenza di un turismo di guerra”, spiega il sindaco De Marco – moderato centrista che ha vinto da civico, per poi lasciarsi sedurre da Matteo Salvini – descrivendo la comparsa di queste decine di fotografi più o meno amatoriali che venivano qui da Treviso, da Trieste, a vedere gli F15 decollare. “E fu anche l’epoca d’oro dei locali, con un viavai continuo di notte e di giorno e delle imbriacadure memorabili”, racconta la cameriera del California, che rievoca quel periodo chissà se più con cinismo da commerciante o con sincero rimpianto: “Quello della guerra nei Balcani fu il periodo più divertente, qui”.

 

Ma fu anche, in un certo senso, un parossismo che preludeva a un cambiamento. Forse per via della prima storica vittoria della sinistra radicale qui ad Aviano dopo mezzo secolo di Fattore K a profusione, forse per via di un attentato alquanto scombiccherato delle supposte “Nuove Br”, con una smitragliata contro i dormitori dei militari da un’auto in corsa. Gli americani chiesero di chiudere al traffico locale, per ragioni di sicurezza, una stradina – via Pedemonte – che in effetti è una striscia d’asfalto che separa la base dalla cosiddetta Area 2, quella appunto dove stavano le residenze bersagliate dai wannabe terroristi. In una convergenza tra sinistra radicale e destra variamente intesa, primordi di rossobrunismo anti yankee, ci fu una mezza sollevazione. In più, l’intensificarsi delle operazioni nei Balcani determinò in effetti l’arrivo di migliaia di nuovi militari, e a quei militari bisognava trovare una sistemazione: gli americani prima stimolarono i sindaci del circondario a favorire nuova edilizia ad hoc, poi s’accorsero che la cosa diventava dispendiosa assai. E insomma, gli Usa si misero in proprio: allargarono l’aeroporto, rinnovarono la base. Un miliardo di dollari d’investimento per quello che si chiamò “Aviano 2000”, e che portò alla nascita di una cittadella indipendente, riproduzione in scala di una hometown con tanto di ospedale, supermercato, cinema, e perfino un golf club.

 

“Ormai loro vivono lì, escono poco”, dice Tassan Viol. “E anche dentro l’aeroporto, nel mall e nell’ufficio postale, e in tutte le decine di attività presenti, preferiscono far lavorare i famigliari dei soldati, nonostante loro siano, per il diritto italiano, degli extracomunitari”, s’indigna Davide Fregona, sindacalista della Cisl. E poi, ovviamente, è finita anche la cuccagna della movida. “Degli oltre venti locali, ne restano un paio”, ci dice la cameriera del California, il “Beer Parlor” stile country che ancora resiste, e che però si anima davvero solo il venerdì sera, coi militari in libera uscita.  A venirci oggi, ignari della gloria che fu, l’impressione è un po’ straniante. Quella americana è una presenza eterea, pervasiva ma spesso impalpabile. Intravedi le divise dietro i finestrini oscurati della Mustang in coda al semaforo di via Mazzini, intercetti uno scambio di battute al tavolo del bar, li incroci in fila da Marko’s grill, che prendono il loro sacchetto e poi si chiudono a mangiarlo in macchina: sfuggenti, diffidenti.

 

In realtà qualche segno d’integrazione c’è. Perché nelle giovanili di calcio e di basket, qui ad Aviano, capita spesso di vedere giocare qualche figlio di Marine. E anche nelle classi di asilo ed elementari che fanno ricreazione al cortile, qui in via Paolo Diacono, si vedono tracce di cosmopolitismo friulano: figli, perlopiù, degli ufficiali che, folgorati dal Belpaese, hanno deciso di prolungare la permanenza, anche per otto, anche per quindici anni. Pochi casi, però. Perché quasi tutti i propri bambini vogliono tenerli qui, in questo piccolo simulacro di America ai margini della Valcellina, dentro il perimetro presidiato, delimitato da cancellate e filo spinato, oltre la rete da cui Elisabetta ci parla. E fanno bene, viene da dire. Ché qui, in base, tutto è nuovo di pacca, con corridoi luminosissimi, aule digitalizzate, campi sportivi e aree attrezzate, e piscina con scivoli e trampolini. Un mondo parallelo. Che ha pure le sue storture (“Noi ad esempio – ci dice Elisabetta – facciamo le esercitazioni d’emergenza simulando che qualche reduce da missioni particolari, preso da un colpo di testa, entri in classe con un fucile e faccia una roba tipo Elephant”) ma che è in tutto e per tutto autosufficiente. 

 

E non solo qui, alla base vicina al centro città, sede operativa e logistica perlopiù; ma anche all’aeroporto, che è più giù, sulla strada che porta a Roveredo in Piano, ancor più mastodontico e ancor più inaccessibile. A girarci intorno, sfruttando i sentieri che nel lambiscono la rete, tra filari di viti e un canale di scolo, ci si impiegano oltre due ore di cammino a passo sostenuto. La piccola America, vista così, non è poi così piccola. E invece su, ad Aviano città, è come se tutto, in un certo senso, parlasse del tempo che è stato: come una scenografia impolverata dopo lungo disuso, ma non ancora smontata dal palco. E testimonia, però, di come tutto è iniziato, di come l’irruzione dell’American style s’è prodotta prima che la globalizzazione lo rendesse lo standard a cui aderire. L’americanizzazione della provincia italiana prima che tutto diventasse provincia americanizzata: la Dodge Challenger rossa metallizzata, con la presa d’aria sul cofano, in fila al benzinaio davanti al pandino verde. Un’omologazione musealizzata, fotografata in uno stato puro, cristallino. E anche un’immagine, forse, di cosa potrà essere, di come sta per diventare, con gli hammer esorbitanti che sfrecciano tra le viuzze del paese, davanti a muri scrostati e cascinali in ristrutturazione coi ponteggi del 110 per cento.

 

Identità? Certo se nasci ad Aviano, sapere di stare sulla faglia del mondo diviso in blocchi, sull’avamposto orientale dell’Occidente libero, un po’ contribuisce a definire il tuo specifico esistenziale, a farti sentire qualcuno. “Geopoliticamente siamo in prima linea, per così dire”, sorride il sindaco, che alle sue spalle, nell’ufficio del Municipio, ha una bandiera americana e una italiana, insieme. “Ma più che altro per noi è sempre stato un gioco”, sorride Elisabetta, che ora lavora in quell’aeroporto dove da ragazzina, ai tempi delle medie, veniva portata in gita. “Io poi ho fatto il linguistico: tenevamo una corrispondenza via posta con un nostro pen friend, e ogni tanto facevamo giornate di scambio: loro nella nostra scuola italiana, e noi qui. A me divertiva, ma nessuno dei miei coetanei ha scelto di restare perché si sentiva un privilegiato, a stare qui ad Aviano”. C’è insomma come uno sforzo di ridimensionare, una voglia di non ridurre Aviano alla base, una umanità nebulosa che gravita intorno ai due squadroni di volo americani. E allora ecco l’orgoglio per il Cro, il Centro di ricerca oncologico, eccellenza regionale. Ecco la rivendicazione di un’altra eccezionalità, legata al fiorente allevamento di bufale (“La vuoi assaggiare la zizzona di Aviano?”). Perfino il vino, ormai, è motivo di fierezza, da quando, un lustro fa, Aviano è diventato “terra di Prosecco”.

 

E poi, ovviamente, Padre Marco. Che merita una riflessione. E non solo, a quanto dicono qui al Bar Sport, perché sarebbe stato “l’inventore del cappuccino”, avendolo fatto provare per la prima volta a Leopoldo I. Ma perché pare una coincidenza clamorosa, per quel che valgono queste cose, che l’idolo del luogo, il beato nato qui quattro secoli fa e con cui oggi si cerca di affrancarsi dalla sudditanza del militarismo occidentale, sia in realtà un predicatore che motivava gli eserciti, un oratore che imperatore e papa mandavano in giro a consolidare alleanze belliche per difendere l’Europa cristiana dall’invasore. “Sì, è così, ed è notevole questa cosa”, dice Marco, che con la sua associazione “Laudato Sì” molto si spende per far conoscere le virtù del “frate taumaturgo”. “Ma va detto che lui invitava alla resistenza, più che alla guerra: benedisse le truppe austriache che difendevano Vienna dall’assalto degli Ottomani invasori”. Una Nato ante-litteram, la Lega Santa. “Ma io preferisco richiamarmi all’insegnamento di Papa Francesco: tacciano le armi, serve la pace a ogni costo”.

 

Insomma, reinventarsi. Non farsi schiacciare dalla presenza americana, che pure viene vista più come un’opportunità che non come un problema. E forse si spiega anche così, alla luce di questo sereno distacco dalle cose della base, anche l’indifferenza riservata alla questione che invece in giro per l’Italia è quella che desta maggiori polemiche. Sì, le testate nucleari, assicurano tutti, ci sono: B61, è il modello, missili che vanno attivati, montati sui caccia, sganciati a ridosso dell’obiettivo. Insomma, non roba che parte da sola schiacciando un pulsante. Nessuno sa davvero quante siano (c’è chi dice 20, chi 50), mentre pare assodato – assodato perché tutti ne hanno sempre avuto certezza, e perché un giorno Massimo Brutti, sottosegretario alla Difesa nel primo governo Prodi, durante una sua visita si lasciò scappare un sibilo che confermò la vulgata – il luogo di deposito: e cioè la vecchia polveriera militare, a cui si accede da una stradina sterrata poche centinaia di metri prima dell’ingresso dell’aeroporto. Elsa Morante era convinta che la resistenza al novecentesco istinto autodistruttivo fosse nell’arte, nella ricerca del bello e del vero, il poeta rannicchiato sulla sua colonna da stilita. Qui questa idea della resistenza sembra aver trovato una declinazione più pragmatica: per cui se pure sentono di doversi opporre alla Bomba, lo fanno con indolenza, un fatalismo di grana grossa. Abbiamo troppo da pensare a come arrivare a stasera, per stare qui ad angustiarci sulla fine del mondo.

 

Quasi tutti, almeno. Valentino De Piante, il comunistissimo ex vicesindaco nella prima storica giunta rossa di Aviano, uno che la Bolognina non l’ha mai digerita e ha scelto la strada di Rifondazione, si indigna ancora per l’accidia dei suoi concittadini. Per decenni s’è battuto contro la base, ha partecipato alle marce della pace radicali, quelle che Marco Pannella guidava da Trieste ad Aviano. Ora manifesta simpatie grilline, ma con spiccata tendenza antidimaiana (“Conte è l’unico che s’oppone al riarmo, e fa bene. Giggino invece è un furbo, vuole stare al governo e basta”), e anche lui organizza marce della pace. L’ultima, domenica scorsa. “Da qui fino a Santa Maria del Monte”. Ma a quella prevista per sabato no, non ci andrà. “La organizza il sindaco, che è di destra, e non mi piace. E poi si parla di pace in senso astratto, senza nessun riferimento contro gli americani e la Nato”. Batte ancora i pugni sul tavolo, che è quello del Bar Sport. “Ormai abbiamo ceduto il tema dell’antiamericanismo a CasaPound”, che due mesi fa, da sola, ha appeso davanti al supermercato cittadino uno striscione per ricordare la strage del Cermis. “Nessuno se ne frega, tutti indifferenti”, insiste De Piante.

 

Ma non è che sono indifferenti. È che forse, più banalmente, al di là della ricerca di nuovi orizzonti e nuove identità, la base garantisce a tutti un certo guadagno. Non come un tempo, certo, “ma sono comunque 500 milioni all’anno di ricadute per Aviano e i comuni limitrofi”, fa di conto il sindaco. Nella base, poi, pur tra malumori sindacali, lavorano comunque 700 civili italiani: non proprio pochissimi. E gli affitti ancora tirano. Perché è vero che, da quando l’aeroporto è stato ingrandito, sono stati costruiti anche dei dormitori: ma sono per lo più destinati ai single. E i single qui sono pochi. “Quando decidono di avviarsi all’aeronautica, la prima cosa che fanno è cercarsi una moglie, così da avere poi diritto a portarsi dietro tutta la famiglia nelle varie destinazioni a cui verranno assegnati”, ci spiega Elisabetta, che dunque si ritrova quasi sempre a che fare con madri poco più che ventenni. E dunque a queste famiglie va trovato un alloggio, e gli avianesi hanno affinato le loro strategie commerciali.

 

C’è perfino chi, come Rachell, giovanissima madre del Colorado, da quando è ad Aviano, coi suoi due bimbi e il marito Matt, pilota, si è provata come influencer di nicchia: e alle sue non poche migliaia di follower spiega, dalla sua casa di Polcenigo, pregi e svantaggi del vivere in Italia, dispensa consigli utili su come guidare, come fare la spesa, come adeguarsi ai ritmi rallentati del dopopranzo, perfino come gestire una gravidanza. Insomma della Nato e delle guerra nucleare qui frega il giusto. “La speculazione politica la lascio ai grandi. Mi limito a dire che la pace e la democrazia hanno un prezzo e l’Occidente è chiamato a non tirarsi indietro, davanti alla tragedia ucraina”, spiega il sindaco neoleghista, misurando bene le parole. Se fastidio c’è, è più che altro legato alla riluttanza con cui gli americani si adeguano alle norme sulla differenziata, alla loro prepotenza sulla strada (“Dice che negli Usa chi prima arriva all’incrocio, ha la precedenza: e questi allora quando s’avvicinano a un incrocio accelerano”), a questa storia dell’inno americano che ogni pomeriggio, alle cinque, risuona per le vie della città, e ovviamente al rumore. Un rombo sordo, continuo, che s’interrompe in alcune ore e che d’improvviso ricomincia, e che in effetti è alquanto invasivo in certi momenti, come un temporale sempre incombente oltre il massiccio di Piancavallo. Nella frazione di San Martino, in particolare, quella più esposta, la forza dei jet fa tremare i vetri, muove le tegole sui tetti. Il tutto anche di notte, spesso. È per questo, soprattutto, che l’avianese medio borbotta.

 

Le giuste pretese dei semplici che cozzano con quelle di chi è chiamato a gestire un sistema complesso per garantire loro la sicurezza che chiedono. Il sacrificio dei diritti di tutti i giorni in nome dei diritti assoluti, e il tutto che si regge su un filo sottile di indicibilità. E’ un po’ il solito discorso del colonnello Jessup messo alla sbarra dal tenente Kaffee, in Codice d’onore. “Viviamo in un mondo pieno di muri e quei muri devono essere sorvegliati da uomini col fucile”. E però il film esce tre anni dopo la caduta del muro. E forse anche per questo con troppa facilità s’è ritenuto indiscutibile il dover riconoscere le ragioni di Tom Cruise, e liquidare come un delirio da mitomane quelle di Jack Nicholson. “Siamo davvero ripiombati nel Novecento, in quel Novecento? No, io spero di no, voglio credere di no”, protesta Marco, mentre beve il suo cappuccino, richiamandosi, dice, alla Fratelli tutti di Francesco. Di notte, camminando per le stradine sterrate che dal centro abitato di Aviano portano fino alla polveriera, nella pace senza pretese della campagna friulana, l’aria asciutta è attraversata da un fascio argenteo che disegna una specie di arco nel cielo, come un faro da richiamo di una discoteca: guardando in là, verso sud est, dall’aeroporto militare un arancione soffocato, compresso sulla linea dell’orizzonte, oltre il profilo scuro della boscaglia. Come un’alba metafisica, spettrale, sempre in allerta.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.