(foto Ansa)

da togliere il fiato

“L'abbiamo trovata”. L'Endurance di Ernest Shackleton è di nuovo tra noi

Francesca D'Aloja

Inabissata il 21 novembre 1915, è stata avvistata oggi, due giorni prima che la missione fosse ritirata. Merito dello spirito folle e utopistico degli esploratori di altri tempi

Alle 8.45 del 9 marzo ricevo il più bello (e desiderato) regalo per il mio onomastico: una notifica di Twitter, postata dall’account History Hit pubblica le tre parole che aspettavo dal 5 febbraio scorso: “We found it!”. 
It, lei. La goletta Endurance di Ernest Shackleton, inabissata nel gelido mare di Weddel il 21 novembre 1915, è stata finalmente avvistata dopo oltre un mese di ricerche caparbiamente sostenute dalla spedizione Endurance22. Confesso che cominciavo a perdere le speranze circa l’esito della missione, poiché il tempo concesso all’archeologo marino Mensun Bound, promotore della costosissima spedizione (finanziata da un donatore anonimo con dieci milioni di dollari) era ormai agli sgoccioli. Entro i prossimi due giorni, infatti, la nave rompighiaccio Agulhas II, salpata da Cape Town più di un mese fa avrebbe dovuto abbandonare il campo di ricerca e fare ritorno alla base.  E proprio come accade a volte nel gioco del calcio, quando il gol segnato all’ultimo secondo rovescia il corso degli eventi, il colpo messo a segno dal team di scienziati, ingegneri, geologi e archeologi marini accende una fiammella di entusiasmo nei giorni più bui e incerti del nostro presente.

Sarà forse per questo che mi aggrappo a un sentimento di gioia inaspettata resa ancor più preziosa in ragione della sua incongruità, sarà forse la tensione accumulata negli ultimi giorni a farmi piangere, per una volta, di felicità, e sarà che alla storia di quel relitto scomparso da oltre un secolo ho dedicato molto del mio tempo senza mai stancarmi dell’epica che lo ha reso celebre. E dunque le immagini restituite dalle videocamere ad alta definizione, che dalla profondità di tremila metri mostrano lo scafo in legno incredibilmente ben conservato grazie al freddo e all’assenza di parassiti marini, e inquadrano quella scritta, Endurance, leggibile dalla prima all’ultima lettera, mi tolgono il fiato. 

Il successo di questa difficile impresa, fustigata dal freddo, dal vento e dalla mala sorte (nella notte fra il 21 e il 22 febbraio l’Aghulas II si è fatta imprigionare dal ghiaccio, a riprova che a quelle latitudini la natura non perdona, oggi come ieri) racchiude in sé lo spirito folle e utopistico degli esploratori di altri tempi, il senso inesauribile dalla ricerca scientifica, ma possiede anche il pregio di aver riportato alla luce non solo il relitto simbolo di un’impresa unica, ma la memoria di un uomo straordinario scarsamente ricordato, il cui nome, oggi, campeggia sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. Per quanto mi riguarda, è questo il traguardo più bello. Quando ho cominciato a interessarmi alle imprese di Ernest Shackleton, mi capitava spesso di chiedere a diversi interlocutori se lo avessero mai sentito nominare: in pochi, pochissimi, rispondevano di sì. Per molti, l’uomo che a mio avviso meriterebbe una statua in ogni città del mondo, era uno sconosciuto. Il suo ricordo sembrava inabissato come la sua nave, per lunghi anni custodita dal ghiaccio e dagli anemoni marini, avvinghiati al timone, alla chiglia, agli oggetti ancora intatti appartenuti ai ventotto bravest men dell’equipaggio Endurance.

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