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Contro mastro ciliegia

Un buon uso di Klimt. Vendere la “Giuditta”, perché no?

Maurizio Crippa

A chi si indigna per la provocazione dell'assessore veneziano bisognerebbe spiegare che nella storia i beni pubblici sono stati tutt’altro che incedibili. L’arte è anche valore (di scambio). Ricchezza per idee

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Sì, certo. Insegnano gli esperti che la Giuditta II di Klimt fa parte del patrimonio di Ca’ Pesaro, Galleria internazionale d’arte moderna, per lungimiranza del comune di Venezia che acquisiva ogni anno le migliori opere della Biennale (il dipinto è del 1909, esposto nel 1910), e dunque è inalienabile nella sua incardinazione serenissima. I politico-legulei spiegano – già lo fece il nume tutelare della categoria, Dario Franceschini, quando il sindaco Brugnaro lo propose per primo nel 2017 – che una legge impedisce di vendere opere d’arte pubbliche. Che le leggi possano essere modificate, quando rispondono ad assiomi e non a degli interessi pubblici concreti, invece non ve lo diranno: l’Italia è un paese di adoratori di ciò che è inamovibile. Quindi tranquilli, Giuditta II non verrà venduto.

 

Ma certuni giornali, e numerosi sapienti del social, hanno illustrato il loro niet con l’immagine della Giuditta I, più anziana di otto anni, che sta all’Österreichische Galerie Belvedere a Vienna e nulla c’entra con quella di Ca’ Pesaro: qui lo si dice semplicemente per notare che la gran parte degli indignati, quella Giuditta nemmeno la conosce; del resto se si sbirciano i dati di Ca’ Pesaro, anno 2019 pre Covid, si scopre che fa 67.458 visitatori, una partita di calcio, contro i 310 mila del Museo Correr, per dire. Insomma la catena umana dei suicidi per Klimt fuori dal portone non la si riesce a immaginare. Ma non sta qui il punto, per dire che la (impossibile) vendita proposta dall’assessore alle Infrastrutture Renato Boraso, che vorrebbe farci i 90 milioni per il nuovo stadio, non sarebbe né sacrilegio né cattiva idea.

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Nella storia, compresa quella veneziana, i beni pubblici e d’arte sono stati tutt’altro che incedibili. Si sono barattati territori e intere città, quando serviva. Luigi XV si vendette la Louisiana, Cavour Nizza e Savoia. Ma per stare all’arte, una parte delle collezioni che diventeranno poi il Louvre furono vendute al re di Francia da Everhard Jabach, abile uomo d’affari tedesco che aveva fatto man bassa alla grande svendita (Commonwealth Sale) delle opere della Corona inglese con cui la Rivoluzione puritana intendeva finanziarsi. E il magnate Andrew Mellon (senza di lui non ci sarebbe la National Gallery di Washington), negli anni Trenta approfittò dei folli saldi organizzati dall’Unione sovietica per far cassa coi capolavori dell’Ermitage, tra cui la Madonna d’Alba di Raffaello, oggi alla National. I Musei civici di Venezia possiedono 700 mila opere d’arte. Morirà il patrimonio italiano se, davvero, il comune vendesse un Klimt (sì, lo sappiamo, in Italia ce ne sono pochissimi) per trovare i 90 milioni di schei senza mettere le mani nelle saccocce dei veneziani? L’arte, le collezioni d’arte, sono un bene di mercato e lo sono sempre state: uso del denaro per creare prestigio, o del prestigio per creare una nuova ricchezza, fosse pure un utile impianto sportivo. Poi ci sono gli adoratori delle pietre e dei patrimoni inamovibili. 

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