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Contro mastro ciliegia

La (non) legge della schwa

Maurizio Crippa

La Crusca ha risposto alla Cassazione, e ha spiegato da par suo quale sia il grande compito della lingua: quello di dare valore e forza erga omes alle parole. Senza inventare astrusità introdotte "artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi"

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La cosa più importante nelle “indicazioni” sul linguaggio di genere dell’Accademia della Crusca non è che abbia dato ragione a questi e torto a quelli. Siamo ormai una società che parla così male, proprio perché ognuno ritiene di essere norma linguistica a sé stesso, che i fissati della schwa e degli asterischi continueranno a rotta di collo. La cosa più importante è che la Crusca ha certificato l’essenziale: la lingua non nasce dall’improvvisazione d’uso di questo o quello, ma da una norma che è giuridica e vale erga omnes. Non ha caso, sono risposte al quesito sulla “scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari” posto dalla Corte di Cassazione: non dalla giuria di Sanremo. E’ dalla forza formale delle parole che deriva il loro valore d’uso, il loro potere di significato. E dunque, sintetizzando, la Crusca ha escluso “l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato”, in quanto “introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi: l’asterisco al posto delle desinenze o la schwa”. E vanno evitate le “reduplicazioni retoriche” (noia assoluta) come “lavoratrici e lavoratori”. Mentre bisogna fare “uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile”. La differenza è giuridica, e fa legge.

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