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contro mastro ciliegia

La mano tagliata di Rushdie

Maurizio Crippa

Lo scrittore anglo-pakistano è stato accoltellato il 12 agosto. Ha perso un occhio e l'uso di una mano. La fatwa di Khomeini voleva cancellarlo dai viventi a causa del suo amore per la libertà di pensiero e parola. Avrebbe meritato il Nobel solo per questo. Ma le nostre opposte culture della cancellazione congiurano al silenzio

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“Chi ama la res publica avrà la mano mozzata”
(Czeslaw Milosz)

Il verso del grande poeta polacco Milosz chiude una quartina di una poesia che si intitola Consigli. Consigli a “dei giovani poeti”, e per estensione a tutti gli scrittori e a tutti gli uomini liberi che amano interessarsi di ciò che è vita comune. Un verso per nulla “profetico”, allora come ora è invece un giudizio amaramente storico, concreto. Il 12 agosto scorso, mentre si apprestava a tenere una conferenza per la Chautauqua Institution, benemerita istituzione culturale per la formazione degli adulti e la promozione del free speech, Salman Rushdie era stato accoltellato da un giovane islamico americano di origini famigliari libanesi, ma fanatico sostenitore dell’Iran. Una ventina di coltellate, lo scrittore anglo-pachistano si salvò per miracolo. Tre mesi dopo il suo agente ha raccontato al País che le condizioni di Rushdie restano drammaticamente gravi, “ha perso la vista da un occhio” e “una mano è immobilizzata perché i nervi sul braccio sono stati recisi dai colpi”. Attualità di Milosz. Se c’è uno scrittore che ha amato la “cosa pubblica”, la libertà di pensiero e parola, e l’ha pagata è Rushdie. La fatwa di Khomeini è lontana ormai 33 anni, ma non è stata cancellata. L’attentatore, Hadi Matar, di anni ne ha 24. E’ nato dopo quella condanna, ma evidentemente non importa: l’odio non si cancella.


Invece, nel nostro mondo libero ormai minacciato dalle guerre delle cancel culture – dove la volontà di ripulire le idee e i linguaggi sembra cancellare le libertà di altri, così che ogni reazione opposta si sente legittimata fino alla prevaricazione – su Rushdie, la cui vita un estremista islamista ha tentato di cancellare fisicamente, pesa un significativo disinteresse. Una sorta di doppia cancellazione simbolica. Da un lato, dopo l’emozione del momento, Rushdie è fonte di sottile imbarazzo: la fatwa no, giammai, ma il suo atteggiamento sull’islam è stato a lungo avvertito da molti come poco liberale, persino razzista. Uno di quegli errori di suprematismo culturale da epurare. Dall’altro, per i presunti o autoproclamati  oppositori di questa pulizia o polizia culturale, la rivendicata laicità di Rushdie, il suo sarcasmo verso religioni e tradizioni sono avvertiti come un nemico da silenziare

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“E tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace un’onta”, ha scritto un altro grande poeta, Rilke. E’ terribilmente evocativo che Rushdie sia stato privato, non importa se solo parzialmente, della capacità di vedere il mondo e della capacità di scriverne. E’ come se la cancellazione, la cospirazione del silenzio, l’odio per il free speech e per la libertà delle coscienze e dell’arte, da guerra di simboli e linguaggi si sia fatta soppressione fisica e concreta. Milosz, che fu premio Nobel per la Letteratura nel 1980, scrisse in quella stessa quartina che “si è riusciti a far capire all’uomo / che se vive, è solo per grazia dei potenti”. O per la distrazione momentanea, fosse pure trentennale, di chi invece ti cancellerebbe anche fisicamente dall’albo dei viventi. Dei vedenti, dei parlanti. Si sarebbe potuto dare proprio quest’anno a Salman Rushdie il premio Nobel per la Letteratura. Del resto, Bob Dylan a parte, è di solito un premio alla qualunque; stavolta avrebbe significato molto, contro chi taglia le mani. Ma i giurati cancellano cio che è scandaloso e scomodo, gli ayatollah invece non cancellano mai nulla.
 

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