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Contro Mastro Ciliegia

E poi diventammo spagnolos y contentos

Maurizio Crippa

A Pablito, lo scampato alla gogna dei moralisti, dobbiamo gli anni belli a la playa

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Fu nella gloriosa estate del 1982 che la felicità sbocciò e l’Italia scoprì il nazional-popolare non più in senso gramsciano e cambiò persino la sua lingua materna, quella sportiva. Passando a un maccheronico ed effervescente dialetto latinos. Quella che era sempre stata la Coppa del mondo, e che certi vecchi continuavano a chiamare “la Rimet”, divenne “Il Mundial”. Dolce suono castigliano, e così rimase per sempre. E lui, l’eroe del Mundial, divenne per sempre Pablito. Anche se in realtà lo era già, Pablito, dal Mondiale (non ancora Mundial) di Argentina ’78, quello con Videla e senza Maradona, ma anche senza Cruijff, l’unico che si era rifiutato di andare a giocare nella terra dei desaparecidos. Ma quelli erano ancora gli anni Settanta, cupi ovunque e specialmente di piombo qui da noi. Poi arrivò Paolo Rossi a prendere per mano un’Italia che aveva voglia di rinascere, vincere, soprattutto divertirsi. Il Mundial del 1982, Rossi-Rossi-Rossi, Rossi-Tardelli-Altobelli. Ma soprattutto lui, Pablito por siempre. L’Italia diventò una sorta di vamos a la playa permanente (più tardi qualche sociologo rompicoglioni avrebbe parlato, a buon motivo, di tropicalizzazione sociale). Un corazón latino aveva riportato il trofeo in Italia dopo cinquant’anni, e due anni dopo l’Irpinia. Il Ct con la pipa e il Presidente con la pipa. Gente del popolo, gente per bene. Gente che parlava poco (almeno il Ct) e comunque sempre in modo schietto. Dopo gli anni color canna di fucile arrivarono gli anni più festaioli della nostra vita; gli anni del piccolo boom e delle tv commerciali, dell’invenzione dei jeans col brand e delle teche per panini, dell’invasione dei calciatori stranieri. Tutti benedetti dalla dolce ala della tangente latente che correva nel cielo sempre più blu, ma si stava molto meglio tutti. 
Iniziò lì.

 

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Con una vittoria di calcio e un presidente socialista che un anno dopo avrebbe dato le chiavi del paese a Bettino Craxi. Ma soprattutto arrivò per i piedi e la testa di un talento del calcio cristallino e schietto, il quale però fino a un mese prima era stato trattato come un reprobo, un gaglioffo e un colpevole da gogna: uno del Calcioscommesse. Perché una domenica di tre anni prima la polizia aveva fatto una retata direttamente negli stadi per arrestare dei pericolosi calciatori-scommettitori e aggiustatori di partite. E Paolo Rossi, che allora era del Perugia, finì nella rete, pesce spaurito e incolpevole (cioè reo di aver giocato a tombola a Vietri sul Mare con compagni di cui si fidava e che invece erano il Gatto e la Volpe). La storiaccia di un calcio provinciale d’altri tempi, messa su da un commerciante romano di ortofrutta all’ingrosso e da un oste che ci immaginiamo unto e torvo. Uno scandalo piccolo dell’Italia piccola com’era. “Il calcio in galera” fu il titolo di Repubblica, perché allora il Fatto ancora non c’era. Lui beccò tre anni di squalifica, condonati a due giusto in tempo per la chiamata in Spagna di Enzo Bearzot, uomo integro e perciò mai moralista. Ma al calvario di quei due anni di galera calcistica si sommarono le contumelie di popolo e a mezzo stampa.  

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Mario Sconcerti, ieri sul Corriere, riconosce che a quel tempo lo attaccò spesso, “ero un colpevolista”. Lui tanti anni dopo lo perdonò, “restiamo amici”, da quel toscano sorridente e bonario che era, diverso dai toscani polemici e vernacolari che tanto calcio ci ha pure regalato. Ma ne soffrì sempre. E anche alla vigilia di quel Mundial la curva delle tricoteuse non l’aveva perdonato, il malandrino. Non lo volevano proprio. Lui che non era mai stato un frequentatore di taverne e giri loschi. Così nell’Italia ipocrita di perdonopoli ci vollero i suoi sei gol per cancellare la macchia, per farne un eroe. C’è però qualcosa di istruttivo nel fatto che l’Italia degli anni Ottanta cambiò, allegra e felicemente strapaesana, per merito di uno che prima i moralisti volevano morto; gli stessi che anni dopo avrebbero voluto morti i politici che degli anni Ottanta fecero l’impresa. L’anno dopo la Coppa arrivò l’Italiano (vero) di Toto Cutugno. Ci volle l’85 perché l’edonismo reaganiano di Arbore disvelasse gli italiani a se stessi. Qualche anno ancora e la prima trasmissione di varietà calcistico l’avrebbe fatta una tv locale, con Walter Zenga ancora portiere e conduttore e Fabio Fazio ancora imitatore. E la sigla di Toto Cutugno. Si chiamava “Forza Italia”, e vedete un po’ le coincidenze della vita. Erano gli anni della sostenibile leggerezza di tutto (a parte il debito, vabbè). Ma tutto questo non sarebbe arrivato senza Paolo Rossi, il sopravvissuto alla gogna, e senza il suo Mundial.

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