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La biro, l’Anagrafe, la fila, l’orecchio, la ferocia

Maurizio Crippa

A Portonaccio, Roma, un uomo ha staccato con un morso il lobo dell’orecchio a un altro uomo che stava aspettando il suo turno all'ufficio del municipio

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“Non ce l’ho la biro. Non c’ho la biro. Va ben, non c’ho la biro, e allora? No, scusi, eh, lo so anch’io che è duro stare in fila. Se ci avevo la biro ce lo dicevo a lei, ce la chiedevo a questo qui? Scusi, lo so che è duro stare in fila. No, qui uno che lavora al tornio, senza la biro è un pirla!”. El me indiriss è una delle canzoni più belle di Jannacci. Un vecchio operaio in fila all’Anagrafe. Struggente, perché non c’è niente di peggio dell’anagrafe, quando ti si para davanti con la faccia dura e le unghie lunghe della burocrazia. E ti manda i nervi in pezzi. Ma poi i tempi cambiano, le città pure, e si fanno più feroci, belluini. Così ieri all’Anagrafe del Portonaccio, Roma, un uomo ha staccato con un morso il lobo dell’orecchio a un altro uomo che stava in fila. Poi è scappato.

Pare che il cannibale fosse intervenuto per difendere la moglie, che stava litigando per questioni, appunto, di fila. Perché la biro magari non c’entra, ma il matrimonio è pur sempre il matrimonio. O forse no, che c’entra, è soltanto una delle tante prove del nove di come siamo diventati, servisse una conferma anche al di fuori dei flussi elettorali e dei rigurgiti parlamentari. La cifra della ferocia. Del resto il vecchio di Jannacci cantava, in una lingua che al Portonaccio suonerebbe straniera: “Turnavi a cà la sera e la mia mama / la me netava el nas tüt spurc de sanc / perché la legge a l’era de dai via, / ma l’era anca quela de ciapài”. Anagrafe, vita.

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