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La “minaccia” di De Luca spiegata dal processo Cosentino

Maurizio Crippa
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Vincenzo De Luca, chi gli piace e chi no. Ma vedrete che quattro anni di Trump trasformeranno la minaccia verbale in un normale intercalare vernacolo, di quelli cui nessuno fa caso. A Rosy Bindi ha detto che gli ha fatto “una cosa infame, da ucciderla”. E noi che cavallerescamente avevamo redarguito il Cavaliere, quando fece una battutaccia sulla signora, non sappiamo che altro dire. Però c’è questa cosa, che è peggio delle intemperanze verbali di De Luca e – se non le giustifica sul fronte della gentilezza espositiva – quantomeno le riconduce alla dura realtà dei fatti, e le rende plausibili. Anzi politicamente sensate. Ieri il tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato l’ex sottosegretario e politico di Forza Italia-Pdl Nicola Cosentino a nove anni di carcere.

 

Per quel reato-non reato e abnormità giuridica che è il concorso esterno in associazione mafiosa. Commessa in quelle zone dei Casalesi in cui, di recente, Luigi Di Maio s’è fatto fotografare col fratello di un pentito dei Casalesi, ma nessuno ha detto nulla. I pm avevano chiesto sedici anni, che ormai non li danno più manco ai killer della mafia. Ma soprattutto, per stabilire se Cosentino abbia concorso esternamente o no, i giudici ci hanno messo quasi sei anni, un tempo assurdo. E di quegli anni Cosentino ne ha trascorsi due e mezzo in carcere, per nessuna condanna, ma per un utilizzo da tortura e immotivato della carcerazione preventiva. E qualcuno dirà, lo diranno di certo: beh, un po’ l’ha già scontata, no?

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