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Il “paziente zero”, quello “X” e la nostra paura di volare

Maurizio Crippa
La storia di Gaetan Dugas, di cui ha parlato ieri il Corriere riprendendo un articolo di Nature, racconta molto di più che un pezzo di storia della medicina.
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La storia di Gaetan Dugas, di cui ha parlato ieri il Corriere riprendendo un articolo di Nature, racconta molto di più che un pezzo di storia della medicina. Lui è il “paziente zero” dell’Aids. Lo steward dell’Air Canada (gay, ma forse era l’unico indizio) mandato agli annali come il primo responsabile della diffusione del virus Hiv negli Stati Uniti. Niente, trent’anni dopo e grazie all’analisi genetica è stato scagionato. Una ricerca dell’Università Arizona di Tucson ha chiarito che il virus era giunto dai Caraibi parecchi anni prima che l’attivissimo Dugas inguaiasse almeno quaranta partner con cui aveva avuto rapporti sessuali non protetti (ma allora, “non protetti” non era ancora nel vocabolario pol. corr.). Però, di mestiere, volava. E la paura che scende dal cielo è presente in un’altra leggenda (incubo?) metropolitana. Quella del “paziente X”. Il “paziente X” è quello che è ancora nella fase di incubazione del virus ebola; ma passa il gate di un aeroporto in Guinea, Sierra Leone o Liberia. Passano tre settimane. Lui è tranquillo a Madrid, o a Toronto. E scatena un inferno come manco un Mohamed Atta del terrorismo aereo-virale. Non esistono prove della possibile trama da serie tv, né dell’esistenza del “paziente X”. Ma ce la facciamo sotto con il nostro magico, misteriosofico o complottistico approccio alle inquietudini della scienza. Dugas è morto nel 1984. Buon per lui, verrebbe da dire. Oggi la Raggi lo additerebbe come untore delle scie chimiche dei frigoriferi dismessi.
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