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Tre pm fanno una prova? Per ora il caso Uva è chiuso

Maurizio Crippa
Il caso di Giuseppe Uva, morto a 43 anni nel 2008 in un ospedale di Varese dopo un Tso in una caserma dei carabinieri, ha finalmente una prima verità processuale. Sono stati assolti con formula piena sei poliziotti e due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità.
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Il caso di Giuseppe Uva, morto a 43 anni nel 2008 in un ospedale di Varese dopo un Tso in una caserma dei carabinieri, ha finalmente una prima verità processuale. Sono stati assolti con formula piena sei poliziotti e due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità. Quello di Uva è un caso complicato ed esemplare, oltre che tragico, come tutti i casi di morte in seguito a Tso mal condotti, anche quando ciò che accade non è frutto di reato. Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani, nel 2014 aveva ripetutamente denunciato il fatto che il pm Agostino Abate avesse per anni sostanzialmente cercato di non procedere nell’indagine.

 

Il gip Giuseppe Battarino aveva respinto la richiesta di archiviazione di Abate, poi trasferito (per altre faccende). Ma anche il successore Felice Isnardi chiese l’archiviazione durante l’udienza preliminare, per l’insussistenza delle prove. Arrivati infine al processo, anche il pm Daniela Borgonovo, come i suoi predecessori, ha chiesto l’assoluzione per tutti gli imputati: non vi è alcuna prova di un pestaggio nei confronti di Uva nella caserma dei carabinieri. Spesso il caso di Giuseppe Uva è stato associato nei media a quello di Stefano Cucchi, ieri dopo l’assoluzione in Corte d’Assise i familiari hanno gridato la loro rabbia per una giustizia che ritengono negata. Tre pm non fanno una prova, ma per il momento c’è da sperare che stavolta la giustizia abbia ragione.

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