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La petite

Mariarosa Mancuso
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Due filoni si intrecciano. Il primo riguarda la recitazione. Fabrice Luchini (che di solito nei film è di malumore, rigido, o borbotta) nella parte del sessantenne depresso che, dopo la morte del figlio e del suo compagno in un incidente aereo, cerca la madre surrogata che sta per partorire la creatura. E si commuove. Il secondo sociale. Se due maschi francesi trovano una madre surrogata in Belgio, dove la pratica è legale solo se fornita a titolo gratuito, e si accordano per 60 mila euro, può il genitore di uno di loro subentrare, evitando che la neonata sia data in adozione? I consuoceri non ne voglio sapere, preferirebbero battersi per un risarcimento dalla compagnia aerea. Fabrice Luchini, restauratore di mobili finora triste e solitario, trova nella bambina che nascerà la sua ragione di vita. Il film è sceneggiato e girato con un certo garbo, non esente da lentezze. C’è anche la madre surrogata, da convincere. Che ha già una figlia, si è prestata per soldi, fuma, beve, prende medicine, e trova molto importuno l’intervento del futuro nonno – padre del padre biologico, potrebbe anche superare la prova del DNA. Il nonno aspirante padre compra una vecchia culla, che si dice appartenuta a Klimt. L’insistenza sul riciclo, sul corpo del figlio scomparso in mare nell’incidente, e l’idea che qualche cellula sia sopravvissuta nella neonata che nascerà è un teorema costruito per commuovere. Se non ci cascate, risulta un po’ fastidioso.

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