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Asteroid City

Mariarosa Mancuso
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Non è che adesso vogliamo rimproverare a Wes Anderson di essere Wes Anderson? Il mormorio era cominciato ai tempi di “The French Dispatch”: troppe cornici, troppe storie, troppi attori, troppe citazioni che sfuggivano (a complicare materia, i salti tra francese e inglese, dalla versione doppiata ci siamo tenuti la distanza di sicurezza). Spezzato l’incanto, anche “Asteroid City” ha raccolto i suoi mugugni, stavolta perché troppo “leggero”.

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Siccome le scuole le abbiamo fatte con profitto, e pure l’università – non sostituibile con i film di Wes Anderson, modello semplice o modello complicato – ci divertiamo, pur riconoscendo che certi film sono meglio di altri, non sempre si può avere “Grand Budapest Hotel”.

 

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Qui siamo nel deserto, il posto ideale per le inquadrature simmetriche che piacciono al regista. La buca del meteorite è perfettamente concava e liscia, come un mestolo premuto su un budino. Numerosi sono i fake frutto dell’Intelligenza Artificiale, saputo che Wes Anderson avrebbe girato film di fantascienza. Facilmente distinguibili dall’originale, l’AI non ha l’ironia necessaria, e forse mai l’avrà.

 

Al magnifico cast che Wes Anderson porta con sé da un film all’altro, si aggiunge Tom Hanks, nonno di tre bambine che ancora non sanno di essere orfane – papà tiene le ceneri dalla mamma in un pratico Tupperware.

 

Chi preferisce il Wes Anderson più classico, troverà su Netflix “La meravigliosa storia di Henry Sugar”, da un racconto di Roald Dahl

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