Un frame da "Nel nome dell'arte", il documentario di Jeremy Irons

Da Napoleone ai Ferragnez, con i documentari siamo quasi all'overdose

Mariarosa Mancuso

Quello di Jeremy Irons oramai è l'ultimo di una lunga serie, quasi un'epidemia. Un campionario di celebrazioni, mai un pettegolezzo vero

Napoleone poveretto non c’entra, è solo l’ultimo di una lunga serie. Ma quando abbiamo letto che il premio Oscar Jeremy Irons presentava il documentario “Napoleone. Nel nome dell’arte” l’irritazione da overdose si è fatta sentire. E’ un’epidemia? Da quando il documentario è diventato un prodotto attraente? (perlomeno per chi li scrive e li gira, gli spettatori forse non sono altrettanto entusiasti). Alla Festa del cinema di Roma, per esempio, c’erano documentari su Eugenio Scalfari, Marina Cicogna, Monica Vitti, Giorgio Strehler, Frank Miller (che appartiene a una diversa categoria, gli dobbiamo il fumetto e il film “Sin City”), perfino Radio Radicale ha avuto il suo. Il Festival di Torino è da sempre la casa italiana del genere, con sezioni apposite e anche quest’anno (comincia il 26 novembre) non si fa mancare un ricco campionario di celebrazioni – gira e rigira, tutti i documentari lì vanno a finire, mai un pettegolezzo vero. In ordine sparso, e variamente omaggiati, abbiamo Jane Birkin, Anita Ekberg, Papa Francesco, Ilaria Capua, Eduardo de Filippo, e per la serie “tesori che il mondo ci invidia” c’è Paestum.

Carlo Verdone è un passo più avanti, ha la docu-serie “Vita da Carlo” (documentari ne ha già avuti, con il punto esclamativo – “Carlo!” – e in coppia con il fratello Luca ne ha girato uno su Alberto Sordi). Anche Chiara Ferragni ha avuto il suo documentario, diretto dalla regista Elisa Amoruso (che in “Fuoristrada” filmava meccanici della periferia romana che si facevano chiamare Beatrice). Ora avrà assieme a Fedez il docu-reality “The Ferragnez”. Nella sigla fanno il verso ai Simpson, seduti sul divano a guardare la tv che li manda in onda.

Napoleone non c’entra, ma a partire dalla partecipazione di Jeremy Irons ha tutto quello che ha reso antipatici i documentari. Anche d’autore, come nel documentario di Luca Guadagnino su Salvatore Ferragamo. La voce fuori campo, o la testa parlante, che suadente accompagna alla scoperta di questo e quello. Sottolinea e si accerta che abbiamo preso nota di tutti i particolari. Nel caso del “Calzolaio dei sogni” (partì dall’Irpinia per fabbricare scarpe a Hollywood e servire le dive dell’epoca) ci sono altre teste parlanti: intervistati in numero sufficiente perché nessun discendente si senta escluso e protesti. Quel che ha da dire è secondario.

Sarebbe meglio non esagerare, con le interviste. O usarle come ha fatto Cosima Spender in “SanPa”: per mostrare i vari punti di vista, avendo cura di movimentarle con un abile montaggio. Chi parla si vede per un attimo, poi alle parole si accoppiano immagini in contrasto, o almeno sensate. Per dire: se viene inquadrata una scarpa, oppure una fotografia, è inutile descriverle, la stiamo vedendo. Se l’intervistato fa un’affermazione – “c’era una porta dipinta di rosso” – l’immagine dovrebbe mostrare qualcos’altro, evitando ridondanze. Obbligatoria, per gli aspiranti documentaristi, la visione del geniale “My Octopus Teacher” – che ha drasticamente fatto crollare le ordinazioni di polpo e patate al ristorante.

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