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L'intervista

L'America Latina dei fratelli D'Innocenzo è ovunque

Giuseppe Fantasia

Il film "più dolce" dei due registi si muove tra paludi e tanta umidità. Al centro, una vita di successo che all'improvviso non funziona più. "Non abbiamo messaggi, i film si fanno per indagare. Interrogarci su noi stessi è la missione più preziosa che il cinema ci permette"

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Quando si guarda un film di Fabio e Damiano D’Innocenzo come quando si leggono le loro poesie, chi lo fa resta sempre rapito da emozioni altalenanti che attraggono, respingono, disturbano persino; un universo a suo modo unico in cui potersi perdere, non può essere che essere un piacere. Quello che mostrano, è un’umanità in caduta libera dotata di un umorismo che solo in apparenza sembra esprimere una critica sociale. Perché loro, come ci hanno detto tutte le volte che li abbiamo incontrati – nel 2018, ai tempi del loro primo film, “La terra dell’abbastanza” e poi a Berlino, due anni dopo, quando vinsero l’Orso d’Argento per la Migliore Sceneggiatura con “Favolacce” – non hanno alcun messaggio.

 

“I film – ci dicono oggi a Venezia, dove partecipano al concorso ufficiale con “America Latina”, in uscita il 25 novembre prossimo per Vision Distribution - si fanno per cercare, indagare, non per dichiarare”. “Abbiamo chiaramente un pensiero molto formato su ciò che non funziona nel nostro paese, ma non ci interessa la sociologia né al cinema né nella vita”. Il loro interesse è raccontare “storie non locali” e l’Italia, in questo film, ha un ruolo puramente fisico, senza incidere minimamente nella narrazione. “Fin dal titolo – dicono al Foglio – prendiamo le distanze con qualsiasi forma di aderenza tra storia e geografia: siamo ovunque”.

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Nei 90 minuti del film, che ha la stessa durata di una partita di calcio, quest’ovunque è di tutti, perché – aggiungono – il dialogo con lo spettatore deve essere fatto in modo tale che continui soprattutto alla fine, quando non tutto è stato ancora evaso, metabolizzarsi così col tempo. Questa volta ci portano a Latina, tra paludi, bonifiche, centrali nucleari dismesse e tanta umidità. Massimo Sisti (interpretato da Elio Germano), è un dentista di successo che ha tutto: una famiglia che ama e da cui è amato, una bella casa e soldi, ma da un momento all’altro, “l’assurdo” – come lo definiscono i due gemelli romani – si impossessa della sua vita. Il risultato è una storia (di cui hanno scritto anche la sceneggiatura) di soffocamento e di claustrofobia realizzata con un linguaggio visivo attraverso il quale riescono a esprimere al meglio quelle sensazioni, facendo sì che “non sia lo spettatore a guardare una mosca intrappolata in un bicchiere, ma sia lo stesso spettatore la mosca intrappolata in quel bicchiere. “Per tentare di raggiungere questo obiettivo drammaturgico abbiamo adoperato lenti con una scarsa profondità di campo, dipinto le pareti della casa con tinte molto omogenee e forti affinché ci ricordassero sempre la loro presenza, e usato camera-angles disarmonici. Abbiamo combinato l’uso della macchina a mano con linguaggi più statici per non dare punti di riferimento stilistici. Nel disordine non può esistere uno stile, quindi anche noi abbiamo precisamente rinunciato a qualsiasi vezzo formale”.

 

Il film, precisano, “è il più dolce che abbiamo realizzato”, ironizzando, ma neanche troppo, sulla cosa. “Sembra una contraddizione, perché è apparentemente scuro, ma bisogna cercare sempre di andare e vedere oltre. La luce è infatti un sentimento che se innalzato al suo contrario, è ancora più significativo. America Latina è un film sulla luce e abbiamo scelto il punto di vista privilegiato dell’oscurità per osservarla. Siamo portatori di film che si fanno propaganda della felicità – continuano – e la dolcezza, anche quando non si vede, c’è, perché è inserita senza mai esibirla allo stato puro, dando così allo spettatore la possibilità di coglierla come meglio creda. A dominare è l’istinto, come a dire: questa è la storia, ma interpretatela come volete”.

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Hanno scelto di raccontare questa storia perché, “era quella che ci metteva più in crisi, come esseri umani, come narratori e come spettatori”. “Una storia che sollevava in noi domande alle quali non avevamo – e non abbiamo nemmeno a film ultimato – risposte che non si contraddicessero l’un l’altra. Interrogarci su noi stessi è la missione più preziosa che il cinema ci permette e America Latina prende alla lettera questa possibilità, raccontando un uomo costretto a rimettere in discussione la propria identità. Prima di salutarci, gli facciamo notare quella scritta – “è amore” – che domina sulla locandina. “Ogni volta che nominiamo la parola amore, tiriamo in gioco paure, fantasmi, disperazioni, inganni e auto-inganni. È nel provare a rendere luminosi questi sentimenti bui che risiede il verbo amare, ma come ogni altro aspetto della vita è il punto di vista a fare la differenza. Puoi dormire con la persona che ami abbracciata a te e durante la notte lei fa un incubo terribile. La mattina dopo non te lo dice. Qualcosa comunque si è messo in moto, sei dentro un thriller”.

 

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Nel film ci sono dei “fantasmi” nel loro significato più metaforico. Ognuno di noi li ha nella vita, ma quelli dei fratelli D’Innocenzo – che ancora non ci credono di essere in concorso (“ci sentiamo come dei ladri che hanno scassinato il database di Barbera”, scherzano, invitando i colleghi a non avere rivalità, “a fare film senza facce male, perché non è semplice fare film”) – riguardano il non essere riusciti a comunicare, soprattutto in passato. “Questo perché abbiamo sempre vissuto con un linguaggio tutto nostro – ci spiegano – e facevamo fatica a esprimere quello che sentivamo. Grazie al cinema, siamo migliorati. È un’arte meravigliosa che ti permette di comunicare senza usare parole, facendo riferimento solo a istinti primordiali che sono in un continuo dialogo tra noi e l’interiorità. Il cinema deve dialogare con chi lo guarda, ma deve esserci anche qualcosa di segreto. Questo dualismo, oggi ci fa stare sereni”.

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