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Riconoscersi, che sciagura

Evviva, arriva la serie da “Il grande Gatsby”. Peccato sarà “inclusive”

Mariarosa Mancuso

Una storia di passione, di affari loschi e di furibonda rivalsa che terrà conto, parole della produttrice, di “gender, race, sexual orientation”. E così invece delle feste ci toccherà la dolorosa storia del domestico

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Bella notizia, faranno una serie da “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald. Quanto a guardaroba, batte di sicuro “La regina degli scacchi”: siamo negli anni Venti, in piena età del jazz. Quanto a trama & scioglimento – intendiamo: uno scioglimento che tenga conto di tutti gli indizi disseminati qua e là – batte sicuramente “The Undoing”. Giusto per fare il paragone con le ultime storie acchiappa spettatori. I ricchi ci sono, non abitano in attici con vista su Central Park, ma in ville sfarzose sulla costa d’oro di Long Island. C’è anche un’identità rubata, come quella che Don Draper assume in “Mad Men”, costruendoci sopra una carriera. Paolo Conte ricorda alle ragazze “Non perderti per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te”. Ecco, “Il grande Gatsby” è quello spettacolo fatto sfarzoso ricevimento. Gatsby vuole riacchiappare Daisy, la ragazza che gli aveva giurato fedeltà (quando lui ancora grande non era, e stava partendo per la guerra) e invece ha sposato un altro.

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Bella notizia, faranno una serie da “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald. Quanto a guardaroba, batte di sicuro “La regina degli scacchi”: siamo negli anni Venti, in piena età del jazz. Quanto a trama & scioglimento – intendiamo: uno scioglimento che tenga conto di tutti gli indizi disseminati qua e là – batte sicuramente “The Undoing”. Giusto per fare il paragone con le ultime storie acchiappa spettatori. I ricchi ci sono, non abitano in attici con vista su Central Park, ma in ville sfarzose sulla costa d’oro di Long Island. C’è anche un’identità rubata, come quella che Don Draper assume in “Mad Men”, costruendoci sopra una carriera. Paolo Conte ricorda alle ragazze “Non perderti per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te”. Ecco, “Il grande Gatsby” è quello spettacolo fatto sfarzoso ricevimento. Gatsby vuole riacchiappare Daisy, la ragazza che gli aveva giurato fedeltà (quando lui ancora grande non era, e stava partendo per la guerra) e invece ha sposato un altro.

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Abita con il marito nella villa accanto, insensibile “allo squadrone di addetti al catering”, le luci che trasformano il giardino in un albero di Natale, i prosciutti al forno e i tacchini arrosto, il bar con “una varietà di gin, liquori e cordiali da così tanto tempo in disuso che la maggior parte delle invitate erano troppo giovani per distinguerli”. Quando si aprono le danze, “non uno striminzito quartetto, ma un’intera buca di oboi e tromboni e sassofoni e viole e cornette e ottavini e percussioni gravi e acute”. Per gli altri dettagli, Neri Pozza ha appena pubblicato il romanzo in un’edizione illustrata da Sonia Cucculelli – non una graphic novel, sono disegni sparsi tra le pagine del testo. L’entusiasmo un po’ si spegne quando scopriamo che sarà un grande Gatsby “inclusive”. Parolina magica che garantisce i non garantiti, e promette che questa storia di passione, di affari loschi, di furibonda rivalsa, di sfacciata ricchezza (ci scappa pure qualche cadavere) terrà conto di “gender, race, sexual orientation”. Lasciamo in inglese l’intero pacchetto (provate voi a tradurre “race”). Sono le solite rivendicazioni, secondo cui se in una storia c’è un maschio serve una femmina, meglio anche un trans. Se in una storia c’è un bianco bisogna compensare con un nero, e poi con un asiatico (vale anche al femminile, naturalmente, e per qualsiasi formulazione intermedia). Se c’è una coppia etero bisogna aggiungere una coppia omosessuale, e tutte le altre combinazioni, se poi qualcuno è innamorato del suo maiale da compagnia, con che coraggio lo escludiamo?

  

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Lo showrunner Michael Hirst (credenziali che spaziano dai “Tudor” a “Viking”) vuole trasportare la storia a Harlem negli anni Venti. Mossa più che legittima, i classici come il Grande Gatsby resistono a tutto. Ma quando sentiamo le parole “gender, race, sexual orientation” anche dalla produttrice Blake Hazard, pronipote e curatrice dell’eredità letteraria di Francis Scott Fitzgerald, c’è da tremare davvero. Un conto è decidere per una versione all black del romanzo – “West Side Story” è “Romeo e Giulietta” di Shakespeare tra due bande di giovanotti (una portoricana), nell’Upper East Side di New York. Un conto pretendere (sempre parole della pronipote) “una versione inclusiva in cui tutti si possono riconoscere”. Riconoscersi. Ecco la sciagura. E risarcire. Finirà che, invece delle feste, ci toccherà la dolorosa storia del domestico, sicuramente nero, addetto alla macchina spremitrice: “Lavorava 200 arance all’ora, purché qualcuno con il pollice premesse 200 volte un pulsantino”. Come si permette Francis Scott Fitzgerald di liquidarlo in una riga?

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