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BIR BAŞKADIR

C’è una serie tv turca che non racconta nulla di speciale, a parte il mondo là fuori

Mariarosa Mancuso

Nessun mondo parallelo, né piccini verdi con le orecchie sperduti per la galassia, “Ethos” parla di faccende quotidiane. Di un paese diviso, fra imam e secolarismo

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Miracoli che solo la scrittura può fare. La serie turca “Ethos” (su Netflix, titolo originale “Bir Başkadır”, reso nella versione internazionale come “A Different One”) racconta faccende quotidiane. Attorno a una ragazza – Meryem – che facendo le pulizie in casa di un ricco giovanotto ha uno svenimento. Ne ha già avuti, durante un matrimonio e altre occasioni. Gli esami medici non rivelano nulla, e dunque la mandano dalla psichiatra. Di nascosto dall’imam, che in questo caso non può impicciarsi, spiegando la differenza tra la vita vera e “quel che racconta la televisione” con un tulipano di plastica e un fiore che perde i petali (i richiami alla realtà e il disprezzo per la fiction seguono desolatamente sempre le stesse argomentazioni). Miracolo della scrittura. “Ethos” non racconta mondi paralleli, né piccini verdi con le orecchie a punta da ricondurre a domicilio attraverso la galassia (dopo essere stati trovati nella galassia medesima e strappati ai cattivi di cui la galassia pullula). Non ci sono adolescenti sulla cui sorte dibattere. Neanche naufraghi in isole deserte. Nulla di nulla, solo il mondo là fuori, che nel caso della Turchia è piuttosto interessante (lo sarebbe anche l’Italia, se qualche sceneggiatore di buona volontà si desse la pena di spulciare – a scelta – i social o le pagine di cronaca dei giornali, o la tv che ti porta il mondo in casa).

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Miracoli che solo la scrittura può fare. La serie turca “Ethos” (su Netflix, titolo originale “Bir Başkadır”, reso nella versione internazionale come “A Different One”) racconta faccende quotidiane. Attorno a una ragazza – Meryem – che facendo le pulizie in casa di un ricco giovanotto ha uno svenimento. Ne ha già avuti, durante un matrimonio e altre occasioni. Gli esami medici non rivelano nulla, e dunque la mandano dalla psichiatra. Di nascosto dall’imam, che in questo caso non può impicciarsi, spiegando la differenza tra la vita vera e “quel che racconta la televisione” con un tulipano di plastica e un fiore che perde i petali (i richiami alla realtà e il disprezzo per la fiction seguono desolatamente sempre le stesse argomentazioni). Miracolo della scrittura. “Ethos” non racconta mondi paralleli, né piccini verdi con le orecchie a punta da ricondurre a domicilio attraverso la galassia (dopo essere stati trovati nella galassia medesima e strappati ai cattivi di cui la galassia pullula). Non ci sono adolescenti sulla cui sorte dibattere. Neanche naufraghi in isole deserte. Nulla di nulla, solo il mondo là fuori, che nel caso della Turchia è piuttosto interessante (lo sarebbe anche l’Italia, se qualche sceneggiatore di buona volontà si desse la pena di spulciare – a scelta – i social o le pagine di cronaca dei giornali, o la tv che ti porta il mondo in casa).

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Quattro o cinque personaggi bastano per raccontare tante cose, e per farli incontrare (vabbé, quando si poteva andare nei luoghi affollati) non servono particolari trucchi. Basta la parola. In parte ha fatto da modello la serie “In Treatment” (origine israeliana, showrunner Hagai Levi; remake americano di Rodrigo García, versione italiana – della serie americana – diretta da Saverio Costanzo). Meryem, ben velata (sotto il foulard colorato per maggiore prudenza c’è una cuffia bianca che imprigiona i capelli) e con l’impermeabile abbottonato fino al mento (un po’ troppo elegante) racconta i suoi svenimenti. Dice che continuerà gli incontri soltanto se l’imam sarà d’accordo. Intanto fa resistenza ogni volta che viene pronunciato il nome di Sinan, il giovanotto da cui va a fare le pulizie. La psichiatra – elegante, senza velo, fa subito “Turchia laica che sta sparendo, non riconosciamo più la nostra Istanbul” – un attimo dopo è davanti alla sua supervisor. Tale e quale a Gabriel Byrne, che al quinto giorno di “In Treatment” (la serie, in epoca pre-binge watching, gli episodi erano trasmessi a scadenza settimanale da Hbo) aveva regolare appuntamento con Dianne Wiest. Viene fuori che ha un contro-transfert, con le donne che portano il velo. Ne è irritata, e sembra anche incuriosita, se non francamente sedotta.

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In effetti, l’attrice Öykü Karayel è incredibilmente brava, e tutto il resto del cast non sta indietro. Davanti alla psichiatra, si stupisce perché ha studiato sei anni per ascoltare chiacchiere: “Ma allora, i dottori che vanno in sala operatoria quanti anni devono studiare?”. Poi però è abilissima a sviare la conversazione, quando rischia di toccare punti delicati (noi sappiamo che non ha detto nulla degli incontri all’imam). La showrunner Öykü Karayel cita il regista Nuri Bilge Ceylan come suo modello (sarebbe strano il contrario, come se un regista italiano dicesse che Federico Fellini proprio non gli piace). Vale per gli ultimi film del turco, che solo di recente ha scoperto la parola (prima erano lunghe scene mute nel buio dell’Anatolia). L’originalità e il fascino della serie ricordano piuttosto il regista iraniano Asghar Farhadi – il suo film più famoso, e parlatissimo, si intitola “Una separazione”.

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