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Piattaforme piatte

Mariarosa Mancuso

Lode allo streaming nell’anno nero del cinema. Ma dove sono finiti i nostri amati Lubitsch, Wilder & Co?

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"Continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato”. E’ la frase finale del “Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald – sapete, il marito di Zelda, prima o poi vedrete che toccherà definirlo a questo modo. Da godere finché si può, la decrescita felice, sempre prima o poi, verrà imposta anche agli scrittori: basta parlare di bianchi ricchi, i futuri grandi romanzi americani sono già per la maggior parte multietinici e migrazionali. In questo anno distanziato, su Lit Hub l’hanno riscritta per adeguarla ai tempi: “Continuiamo a picchiare i pugni sul vetro della finestra, risospinti senza posa dentro casa”. E’ la precisa sensazione di questi mesi, nell’anno che ha visto sparire il cinema. I dati italiani sono raccapriccianti, meno 70 per cento circa di incassi e spettatori sull’arco dell’anno. Ma i dati dall’8 marzo, inizio del primo lockdown, indicano il 90 per cento in meno di incassi e spettatori. Nessuna prospettiva certa per le riaperture, viene sempre fatto balenare il fantomatico pericolo di “affollamenti all’ingresso” (idea balzana che può venire in mente soltanto a chi le sale non le frequenta mai, servirebbero piuttosto dei buttadentro).

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"Continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato”. E’ la frase finale del “Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald – sapete, il marito di Zelda, prima o poi vedrete che toccherà definirlo a questo modo. Da godere finché si può, la decrescita felice, sempre prima o poi, verrà imposta anche agli scrittori: basta parlare di bianchi ricchi, i futuri grandi romanzi americani sono già per la maggior parte multietinici e migrazionali. In questo anno distanziato, su Lit Hub l’hanno riscritta per adeguarla ai tempi: “Continuiamo a picchiare i pugni sul vetro della finestra, risospinti senza posa dentro casa”. E’ la precisa sensazione di questi mesi, nell’anno che ha visto sparire il cinema. I dati italiani sono raccapriccianti, meno 70 per cento circa di incassi e spettatori sull’arco dell’anno. Ma i dati dall’8 marzo, inizio del primo lockdown, indicano il 90 per cento in meno di incassi e spettatori. Nessuna prospettiva certa per le riaperture, viene sempre fatto balenare il fantomatico pericolo di “affollamenti all’ingresso” (idea balzana che può venire in mente soltanto a chi le sale non le frequenta mai, servirebbero piuttosto dei buttadentro).

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Le piattaforme streaming sono state d’aiuto, dopo aver dato pugni alla finestra siamo stati risospinti senza posa sul divano (che la buonanima di Francis Scott Fitzgerald non lo sappia mai, l’abbigliamento non era proprio da sfarzosa soirée). Eppure continuano a restare molto indietro su certi film che vorremmo rivedere, con la certezza che mettono di buonumore all’istante, e invece latitano (intendiamo: titoli compresi nell’abbonamento, che inducono al maligno pensiero che i film ancora redditizi vengono fatti fruttare, serve un altro obolo). Ernst Lubitsch e Billy Wilder, per dirne due. Assieme a tutti i film dove ballano Fred Astaire oppure Gene Kelly. Magari tutto Blake Edwards, non c’è solo la Pantera Rosa o “Colazione da Tiffany” si potrebbe ripescare anche “Victor/Victoria”, anno 1982. Remake di un film tedesco del 1934, dritto nella categoria “oggi non si potrebbe rifare, è già tanto se ce lo lasciano guardare”. Julie Andrews è una cantante senza lavoro, costretta a piccole truffe per sfamarsi nella Parigi negli anni Trenta (porta sempre con sé uno scarafaggio, ordina al ristorante, urla di averlo trovato nella minestra). Finge allora di essere un conte polacco che in scena si traveste da donna. Successo immediato e tanti soldi da spendere in caviale e champagne.

 

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Arrangiarsi su YouTube si può, in casi di necessità e per controllare che una certa scena sia proprio come la ricordavamo – ma senza essere puristi e filologi dall’inquadratura manca sempre qualcosa. E l’effetto di successivi ritagli e adeguamenti alle dimensioni degli schermi televisivi, che riescono a far sparire quasi il 30 per cento dell’immagine. Da qui il fenomeno noto come “mistero dei nasi parlanti”: succede quando a furia di rifilare l’immagine di due che si parlano guardandosi in faccia restano solo i nasi (senza mascherina, per fortuna, e dunque viene voglia di qualche altro pugno alla finestra: si metta comunque agli atti che il primo a inquadrare una mascherina anti Covid in un film è stato Giovanni Veronesi nel film dei Moschettieri-bis: la indossano i ragazzini a scuola, nel prologo, e sono ragazzini che leggono). Si potrebbe sperare in MUBI (altri dieci euro al mese, sconto quantità per chi sottoscrive l’abbonamento annuale). Ma neanche la piattaforma cinefila ama Lubitsch, Wilder, & Co. Propone invece serissimi documentari su “i demoni interiori di Ingmar Bergman” (del regista indiano Dheeraj Akolkar, non bastasse il titolo a tenerci lontani, tipo recinto elettrificato). Le mail con i nuovi titoli spaventano più che allettare. Oggi: “Una bambina ribelle in un campo di streghe dello Zambia”. Ieri: “Una serena favola di formazione dal Costarica”.

 

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