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Al Torino Film Festival la star è una scrofa

Mariarosa Mancuso

Visioni collettive e qualche artistica lentezza (in modalità ognuno a casa sua). Fino a sabato 28 novembre 

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La Mostra di Venezia ha segnato la strada per certi festival a venire, quelli che consentiranno di trovarsi nello stesso posto negli stessi giorni, con mascherina e posti prenotati. Il Torino Film Festival – pochi mesi dopo, sembrano molti di più – è la prima grande manifestazione, molto seguita dal pubblico, che inaugura il modello “ognuno a casa sua”. Addetti ai lavori e normali spettatori vedono i film da casa, collegati con MyMovies che fornisce la piattaforma e già aveva collaudato le visioni collettive, a orario fisso: ci si iscrive, si paga e si guarda (i film festivalieri costano 3 euro e mezzo, 49 euro l’abbonamento per gli oltre 100 titoli, tra lungometraggi e corti). Il Torino Film Festival numero 38 si è inaugurato venerdì scorso e proseguirà fino a sabato 28. Manca all’appello – da quando Stefano Francia di Celle ha preso il posto di Emanuela Martini che lo aveva diretto fino all’anno scorso – la sezione che ospitava film provenienti da altri festival. Negli anni d’oro, c’era da godere perfino una sezione Americana, ricca di film indipendenti.

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La Mostra di Venezia ha segnato la strada per certi festival a venire, quelli che consentiranno di trovarsi nello stesso posto negli stessi giorni, con mascherina e posti prenotati. Il Torino Film Festival – pochi mesi dopo, sembrano molti di più – è la prima grande manifestazione, molto seguita dal pubblico, che inaugura il modello “ognuno a casa sua”. Addetti ai lavori e normali spettatori vedono i film da casa, collegati con MyMovies che fornisce la piattaforma e già aveva collaudato le visioni collettive, a orario fisso: ci si iscrive, si paga e si guarda (i film festivalieri costano 3 euro e mezzo, 49 euro l’abbonamento per gli oltre 100 titoli, tra lungometraggi e corti). Il Torino Film Festival numero 38 si è inaugurato venerdì scorso e proseguirà fino a sabato 28. Manca all’appello – da quando Stefano Francia di Celle ha preso il posto di Emanuela Martini che lo aveva diretto fino all’anno scorso – la sezione che ospitava film provenienti da altri festival. Negli anni d’oro, c’era da godere perfino una sezione Americana, ricca di film indipendenti.

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Resta l’attenzione per i documentari, italiani e stranieri, e per le periferie del mondo. Dopo 25 anni, è stato cancellato – motivi di budget – anche il Premio Cipputi, destinato al miglior film su mondo del lavoro. Togli di qua, togli di là, aggiungi il fatto che si tratta di un’annata cinematografica a dir poco sfortunata (si dà per scontato che i cinema resteranno chiusi ancora per molto, tanto che Ilaria Capua ha proposto di usarli per le vaccinazioni, si intende anti Covid, ché la punturina contro l’influenza non riescono a farla neppure i primari che vanno in tv). Va a finire che la star del festival è una scrofa di nome Gunda, con i suoi maialini. A completare l’allegra fattoria arrivano due mucche (una anziana, le giuste causa non vengono mai sole) e una gallina senza una zampa. “Gunda” è anche il titolo del film, diretto dal russo Victor Kossakovsky. Già in corsa per l’Oscar, grazie a Joaquin Phoenix che fa da produttore esecutivo assieme agli svedesi.

 

La festa dei vegani, in un bianco e nero rigorosissimo. Niente voce fuori campo – questo è cinema puro, spiega il regista come se non avessimo mai sentito parlare di avanguardie. Derivato da un trauma infantile – amichetto con coda riccioluta servito festosamente in tavola – che lo ha fatto diventare (parole sue) il primo ragazzino vegetariano dell’Unione sovietica. Passando agli umani, abbiamo visto il molto caldeggiato “Vera de verdad” di Beniamino Catena (fuori concorso). Senza ricavarne granché: una ragazza sparisce in Liguria, e altrettanto misteriosamente ricompare ormai adulta. Dall’altra parte del mondo, nel deserto di Atacama, un uomo vaga, si contorce, e scrive il titolo del film all’interno di un pullmino arrugginito. “Mi sono ispirato alle teorie di Einstein”, spiega il regista, aggiungendo di suo una siringata generosa di New Age: “Il passato, il presente e il futuro sono contemporanei, siamo noi limitati”. Sempre fuori concorso, il documentario di Barbara Cupisti “My America” misura quanto ancora manca al sogno americano.

 

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In concorso, va l’artistica lentezza. “The Evening Hour” di Braden King (in arrivo dal Sundance) racconta un giovanotto che in un’ex cittadina mineraria ai piedi dei monti Appalachi fa l’infermiere a domicilio e arrotonda spacciando antidolorifici. In tanta desolazione, servivano un ritmo meno soporifero, e qualche taglio. “Las Niñas” di Pilar Palomero racconta una ragazzina che nella Spagna degli anni Novanta scopre il rossetto, il reggiseno, le sigarette, i preservativi. Di nascosto dalle suore. E alla fine, pur stonata, canta nel coro.

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