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Nuovo cinema mancuso

Un divano a Tunisi

Mariarosa Mancuso

La recensione del film di Manele Labidi Labbé, con Golshifteh Farahani, Majd Mastoura e Hichem Yacoubi

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Sul manifesto, Sigmund Freud ha in testa un fez rosso, il sigaro e la barba lo mimetizzano con l’ambiente circostante. Non siamo a Vienna ma a Tunisi, dove un’immigrata di ritorno da Parigi decide di mettere su il suo divano da consultazione. Un po’ la scambiano per una strega e un po’ la scambiano (o forse fingono, perché a provarci non si sbaglia mai) per una casa d’appuntamenti. Già il fondatore aveva dubbi sul fatto che la sua cura basata sulla parola potesse essere esportata e funzionare in culture diverse (e quando sbarcò negli Stati Uniti per una serie di conferenze, era il 1909, formulò un pensiero registrato negli annali: “Ancora non sanno che sto portando loro la peste”). Dopo la rivoluzione dei Gelsomini, l’ostinata Selma decide che a Tunisi servono strizzacervelli diplomati, non bastano le confidenze negli hammam e sotto il casco del parrucchiere. Rimedia una serie di pazienti sbalestrati, che escono ancora più sbalestrati (e del resto anche la governante di casa Freud, addetta a cambiare il pezzetto di stoffa dove i pazienti poggiavano la testa, spesso imbrillantinata, diceva: “Entravano depressi e uscivano depressi”).

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Sul manifesto, Sigmund Freud ha in testa un fez rosso, il sigaro e la barba lo mimetizzano con l’ambiente circostante. Non siamo a Vienna ma a Tunisi, dove un’immigrata di ritorno da Parigi decide di mettere su il suo divano da consultazione. Un po’ la scambiano per una strega e un po’ la scambiano (o forse fingono, perché a provarci non si sbaglia mai) per una casa d’appuntamenti. Già il fondatore aveva dubbi sul fatto che la sua cura basata sulla parola potesse essere esportata e funzionare in culture diverse (e quando sbarcò negli Stati Uniti per una serie di conferenze, era il 1909, formulò un pensiero registrato negli annali: “Ancora non sanno che sto portando loro la peste”). Dopo la rivoluzione dei Gelsomini, l’ostinata Selma decide che a Tunisi servono strizzacervelli diplomati, non bastano le confidenze negli hammam e sotto il casco del parrucchiere. Rimedia una serie di pazienti sbalestrati, che escono ancora più sbalestrati (e del resto anche la governante di casa Freud, addetta a cambiare il pezzetto di stoffa dove i pazienti poggiavano la testa, spesso imbrillantinata, diceva: “Entravano depressi e uscivano depressi”).

 

Chi sogna di baciare dittatori, chi si sente eternamente tiranneggiata dalla madre. Tra le conseguenze della rivoluzione, un poliziotto che la tormenta: per aprire uno studio ci vogliono i permessi, e manca sempre qualche pezzo di carta. Quando i pezzi di carta ci sono la decisione tarda ad arrivare. Lo fa ripetendo: “Adesso anche noi siamo un paese civile e moderno”, mentre l’addetta alle pratiche – sottobanco, in ufficio, vende reggiseni con il pizzo e altra mercanzia – sembra uscita da un film di Checco Zalone. Per sedersi sul divano c’è la fila (e anche in concetto di appuntamento non è ben saldo nella mente dei pazienti). La regista Manele Labidi Labbé è franco-tunisina, ha avuto un’idea originale e azzecca un bel po’ di personaggi. Non si preoccupa tanto del finale, ed è un peccato. Né dei motivi che hanno portato una sofisticata parigina – l’attrice di origine iraniana Golshifteh Farahani – a tornare, dopo la morte della madre, nella terra da cui i genitori erano fuggiti.

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