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leone d’oro alla carriera a Ann Hui

“Love after Love”, per una una boccata d’aria dopo l’eterno neorealismo italiano

Mariarosa Mancuso

A Venezia 77 il film cinese (fuori concorso) aiuta a riprendersi da "Le sorelle Macaluso" e “Assandira”

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La Mostra di Venezia 2020 – anno uno della pandemia, o anno zero dei festival che verranno – è tanto strana che troviamo consolazione in un film cinese. Lo ha diretto Ann Hui, nata a Hong Kong e premiata l’altro ieri con il Leone d’oro alla carriera. Il secondo, dopo quello andato a Tilda Swinton. Al Lido si applicavano le nuove (e demenziali) regole dell’Oscar prima che l’editto venisse emanato: riconoscimento a due donne, di cui una asiatica (e primo invito a una regista afroamericana, Regina King, sia pure fuori concorso). Cinesi ricchi, anzi ricchissimi. Siamo a Hong Kong negli anni Trenta, i genitori di una ragazza non riescono a pagarle gli studi, lei chiede aiuto a una zia. Non la zitella da film italiano: scende da una decappottabile in un abito di taffetà nero, cappello con veletta fino alle spalle, scortata da un bel giovanotto belloccio che ha la metà dei suoi anni e non pare l’autista. Tornano dalla spiaggia, lei in ciabattine con i tacchi. “Love after Love” mette di buon umore.

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La Mostra di Venezia 2020 – anno uno della pandemia, o anno zero dei festival che verranno – è tanto strana che troviamo consolazione in un film cinese. Lo ha diretto Ann Hui, nata a Hong Kong e premiata l’altro ieri con il Leone d’oro alla carriera. Il secondo, dopo quello andato a Tilda Swinton. Al Lido si applicavano le nuove (e demenziali) regole dell’Oscar prima che l’editto venisse emanato: riconoscimento a due donne, di cui una asiatica (e primo invito a una regista afroamericana, Regina King, sia pure fuori concorso). Cinesi ricchi, anzi ricchissimi. Siamo a Hong Kong negli anni Trenta, i genitori di una ragazza non riescono a pagarle gli studi, lei chiede aiuto a una zia. Non la zitella da film italiano: scende da una decappottabile in un abito di taffetà nero, cappello con veletta fino alle spalle, scortata da un bel giovanotto belloccio che ha la metà dei suoi anni e non pare l’autista. Tornano dalla spiaggia, lei in ciabattine con i tacchi. “Love after Love” mette di buon umore.

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Per Dino Risi il cinema era una donna nuda e un uomo con la pistola, ma la variante “abiti da sera & corteggiatori” non è da buttar via. La zia aveva rifiutato il matrimonio combinato, subito cacciata dalla famiglia (la stessa che non ha i soldi per far studiare la nipote). Ha vissuto in concubinaggio con un ricco uomo d’affari, morto lasciandola erede di tutto, e ora si gode la vita. Tra pavoni, servette (piuttosto furbe), festeggiamenti. La nipote ingenua ha molto da imparare. Anche che i mezzosangue – si intende: i figli di gente del posto e di britannici – hanno un lato oscuro. “Due parti di sguardi assassini e una di sigarette”: così Variety descrive Lady Liang, vestita e vestagliata da Emi Wada, di anni 83 (la costumista di “Hero”: i combattenti neanche immaginavano di incrociare le spade, prima di controllare che i chimono fossero della stessa sfumatura, in tono con lo sfondo). Fotografata da Christopher Doyle, che aveva lavorato con Wong Kar Wai per “In the Mood for Love” (ma qui son decisamente più farfalloni, in amore). Musicata da Ryuichi Sakamoto.

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Un meraviglioso intervallo (fuori concorso, manco a dirlo, per non far sfigurare la concorrenza) prima di ricadere nell’eterno neorealismo italiano: stracci, miseria, colombi allevati per liberarli ai matrimoni, panini unti per andare in spiaggia, arena estiva che cade a pezzi. Tema svolto per l’occasione da Emma Dante in “Le sorelle Macaluso”, tratto da una sua pièce teatrale. In concorso, e da oggi nelle sale – mai programmazione di festival è stata così vicina al cartellone per gli spettatori paganti, non addetti ai lavori. Ieri è uscito “Notturno”, ovvero il medio oriente pittorescamente inquadrato, nelle sue sofferenze, da Gianfranco Rosi. E pure “Assandira” di Salvatore Mereu, neorealismo sardo con uso di agriturismo e di ragazzotta tedesca così procace che l’ambasciatore dovrebbe protestare (anche le femministe). Le sorelle Macaluso sono cinque, in partenza. Siccome le vediamo in tre decenni diversi, se una muore giovane resta com’è anche nelle foto di gruppo. Sono tutte piuttosto antipatiche, sarà la vita che fanno. Vivono nel tipico appartamento da cinema italiano, ad assetto variabile. Prima sembra una stretta stamberga, poi diventa una piazza d’armi. Noi che amiamo il cinema perché sullo schermo “un cespuglio è un cespuglio” (non “una cosa che sta per qualcos’altro”, copyright James Ballard) abbiamo un momento di smarrimento. Prima di tornare in noi: “Oddio, è arte, l’avevamo dimenticato, vedrai che prende pure un premio”.

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