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Il documentario di Frederick Wiseman a Venezia

Come governare una città, lezione antipopulista da Boston (a Roma?)

Marianna Rizzini

In "City Hall" uno sguardo profondo sulla città americana e un elogio del compromesso utile per Roma. Prendere appunti

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Roma. Governare una città, e quindi non dare nulla per scontato. Governare una città, e quindi non pensare che la città si governi da sola, come per magia. Governare una città, cioè rendersi conto che è una questione di piccoli e grandi sforzi quotidiani, e che un governo propriamente inteso è necessario anche alla vita del singolo. Questo pensa Frederick Wiseman, il regista del documentario “City Hall”, presentato ieri alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia: uno sguardo allo stesso tempo esterno e interno alla città di Boston, e anche un documento utile in tempi di preparazione alla prossima campagna elettorale per le elezioni a Roma (e non solo), dopo quattro anni di sindacatura Raggi e soprattutto dopo che il ricorso intensivo alla retorica del cosiddetto “populismo urbano” è diventato, in generale, la scorciatoia privilegiata per vincere una competizione a qualsiasi costo, e pazienza se poi non si sa bene che cosa fare di quella vittoria, non avendo magari pronta una squadra o pensando di poter procedere per aggiustamenti, senza un piano, in ossequio al mito del non professionismo in politica.

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Roma. Governare una città, e quindi non dare nulla per scontato. Governare una città, e quindi non pensare che la città si governi da sola, come per magia. Governare una città, cioè rendersi conto che è una questione di piccoli e grandi sforzi quotidiani, e che un governo propriamente inteso è necessario anche alla vita del singolo. Questo pensa Frederick Wiseman, il regista del documentario “City Hall”, presentato ieri alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia: uno sguardo allo stesso tempo esterno e interno alla città di Boston, e anche un documento utile in tempi di preparazione alla prossima campagna elettorale per le elezioni a Roma (e non solo), dopo quattro anni di sindacatura Raggi e soprattutto dopo che il ricorso intensivo alla retorica del cosiddetto “populismo urbano” è diventato, in generale, la scorciatoia privilegiata per vincere una competizione a qualsiasi costo, e pazienza se poi non si sa bene che cosa fare di quella vittoria, non avendo magari pronta una squadra o pensando di poter procedere per aggiustamenti, senza un piano, in ossequio al mito del non professionismo in politica.

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Nel film di Wiseman – noto documentarista americano (classe 1930), già Leone d’oro alla carriera nel 2014 – il sindaco di Boston, il democratico Martin Walsh, si fa veicolo di una visione completamente opposta alla gestione sloganistica della cosa pubblica, quella che a Roma, per esempio, è racchiusa nella frase-tormentone “hanno sbagliato quelli prima di noi”. Che cosa significhi prendersi cura di una città e dei suoi abitanti lo si scopre, nel caso di Boston, dall’insieme di azioni apparentemente slegate che fanno di un provvedimento sui parchi o sugli incendi o sull’emergenza abitativa lo scalino che porterà ad avere, alla fine, un controllo migliore sulla disoccupazione e sulla convivenza tra diversi – e dal fatto che il sindaco attraversa la città non come un marziano, ma come un cittadino che conosce quello di cui parla (e che è anche antitrumpiano, ma soprattutto antipopulista nell’accezione più propriamente politica del termine).

 

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La frase di Abramo Lincoln – “governo della gente, dalla gente, per la gente” – e la ricostruzione minuziosa delle parole e delle azioni che un sindaco ogni giorno deve dire e compiere per essere davvero un primo tra pari, sono il canovaccio attorno a cui si snoda la narrazione del reale pubblico e privato (che in alcuni casi coincidono). I volti dei senzatetto, gli edifici moderni del centro anche economico della città, le piccole case dei sobborghi, i giardini e il fiume con la sua luce fanno da sfondo alle grandi paure non soltanto americane negli ultimi anni populisti: la paura di non poter continuare a essere fino in fondo comunità, a partire dal governo delle piccole cose, e la paura che la natura (in questo caso un uragano, ma potrebbe essere un terremoto o, come oggi, un virus) possa sovvertire il precario ordine umano, tanto più messo a repentaglio da leadership politiche che si fondano sull’adesione epidermica a un’idea semplicistica di “nemico”.

 

L’antidoto, sembra dire il volto irlandese del sindaco mentre percorre le vie di una Boston che fa da specchio ai grandi temi del dibattito, non soltanto americano, sulla convivenza civile – dal cosiddetto “degrado” (vedi Roma, di nuovo) alla convivenza con le forze dell’ordine, al contenimento delle sacche di violenza urbana e suburbana – è racchiuso nella parola dimenticata che ricorre tra le righe nel documentario, e che sembra essere stata così spesso bandita dalla vita pubblica (anche in Europa): compromesso. Quello che serve per governare. E lo sguardo del regista non è mai rivolto, infatti, alla via breve della conquista momentanea del consenso: anche il consenso, sembra dire il film a chi si accinge a correre per il governo di altre città, va costruito pezzo per pezzo, come le case bostoniane di mattoni rossi.

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