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Cinema

Tilda Swinton, il telefono, un’ascia. La lezione di cinema di Almodóvar

Mariarosa Mancuso

"Quo Vadis, Aida?" accusa l'Onu su Srebrenica con atroci sofferenze e poco cinema. "Amants" sarebbe un amour fou ma la passione resta scritta sul copione 

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Grande, grandissimo Pedro Almodóvar. Purtroppo fuori concorso, dimostra a tutti i registi presenti e futuri, professionisti e dilettanti, cos’è una regia degna del nome. “La voix humaine” è un monologo scritto da Jean Cocteau nel 1930, per l’attrice Berthe Bovy. Diventato negli anni tappa obbligata per varie categorie. Le attrici famose universalmente riconosciute per il loro talento drammatico. Le aspiranti attrici che incuranti dei propri mezzi lo imparano per il provino alla scuola di teatro. Le bellissime o ex bellissime che vogliono essere prese sul serio lanciandosi senza rete. Le attrici sul viale del tramonto, che con un divano e un telefono risolvono i problemi produttivi. La donna che si dispera al telefono per l’abbandono dell’amante ha sempre il suo pubblico. L’accumulo ha fatto diventare “La voce umana” – anche per la storica interpretazione di Anna Magnani da tutte imitata, scialle all’uncinetto e capelli che non conoscono spazzola – un monologo antipatico. Fino all’altro ieri. Ieri è arrivato Pedro Almodóvar e ha fatto pulizia.

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Grande, grandissimo Pedro Almodóvar. Purtroppo fuori concorso, dimostra a tutti i registi presenti e futuri, professionisti e dilettanti, cos’è una regia degna del nome. “La voix humaine” è un monologo scritto da Jean Cocteau nel 1930, per l’attrice Berthe Bovy. Diventato negli anni tappa obbligata per varie categorie. Le attrici famose universalmente riconosciute per il loro talento drammatico. Le aspiranti attrici che incuranti dei propri mezzi lo imparano per il provino alla scuola di teatro. Le bellissime o ex bellissime che vogliono essere prese sul serio lanciandosi senza rete. Le attrici sul viale del tramonto, che con un divano e un telefono risolvono i problemi produttivi. La donna che si dispera al telefono per l’abbandono dell’amante ha sempre il suo pubblico. L’accumulo ha fatto diventare “La voce umana” – anche per la storica interpretazione di Anna Magnani da tutte imitata, scialle all’uncinetto e capelli che non conoscono spazzola – un monologo antipatico. Fino all’altro ieri. Ieri è arrivato Pedro Almodóvar e ha fatto pulizia.

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Entra subito in materia: Tilda Swinton, in abito rosso a crinolina e poi in luttuoso nero, indossa un bel tailleur e va dal ferramenta a comprarsi un’ascia. Converrete con me che si tratta di un bell’inizio, invece della camicia da notte con scialletto sovrapposto. Con lei c’è un cane, scopriremo che si chiama “Dash” e già gli abbiamo assegnato quel che a Cannes chiamano Palme Dog: premio alla migliore interpretazione canina.

    

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Tilda Swinton abita nell’appartamento di Pedro Almodóvar, così come lo abbiamo visto in “Dolor y gloria” (era la casa di Antonio Banderas, più che trasparente controfigura del regista medesimo e delle sue tristezze). Ricostruita in uno studio di posa, sul tavolino i Dvd e i libri che Pedro il Grande aveva consigliato in tempi di quarantena. Squilla il cellulare, l’abbandonata estrae gli Airpods dalla scatolina bianca, la lunga telefonata comincia. Con qualche adattamento nel testo. Ora sappiamo che alla nostra vita mancherà qualcosa, se non riusciremo prima o poi a pronunciare la frase: “Ti restituisco le lettere, le ho messe assieme alle mie nel bauletto Chanel”. Mezz’ora di assoluto godimento – si vede perfino una rughetta sul volto di Tilda Swinton, che altro pretendete? Menzione speciale, in un guardaroba già sublime, alla mise per annaffiare i fiori (con la benzina): zatteroni e braghe di paillettes alla David Bowie. Leone d’oro alla carriera meritatissimo – ricevuto ieri dall’attrice – e magnifico il saluto “Wakanda forever” (“Black Panther” ve l’abbiamo stra-consigliato, se restate indietro con il pop non è colpa nostra). 

    

Siccome ai festival non si può godere troppo, hanno accoppiato Almodóvar con “Quo Vadis, Aida?” di Jasmila Žbanich, una delle registe in concorso. Srebrenica, luglio 1995, ottomila bosniaci massacrati e finiti nelle fosse comuni, dopo che l’Onu aveva dichiarato la città zona protetta. I caschi blu fanno la solita figuraccia (non è la prima volta, qui sotto accusa sono gli olandesi). Tante atroci sofferenze, poco cinema, coppa Volpi prenotata per l’attrice Jasna Djuricic, bis del premio vinto a Locarno (sarebbe stata la destinazione naturale del film, senza coronavirus). 

    

Non siamo fan di Nicole Garcia, attrice francese da tempo passata alla scrittura e alla regia (era in concorso a Cannes 2016 con “Mal di pietre”, tratto dal romanzo di Milena Agus, editore Nottetempo). “Amants” non fa cambiare idea, sarebbe un amour fou, con svolte da postino che suona sempre due volte – Stacy Martin e lo spacciatore Pierre Niney si amano, lui lascia la Francia dopo una serata finita malissimo, si ritrovano tre anni dopo a Mauritius, lui inserviente e lei sposata con il ricco Benoît Magimel. La passione riesplode, così almeno stava scritto sul copione, Stacy Martin è più espressiva nuda che vestita. Pierre Niney non sembra il tipo da scatenare passioni travolgenti. Il marito-terzo incomodo si arrangia come può, per speziare la vicenda, ma ha un ruolo appena abbozzato e da solo non può farcela.

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