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Le sulfuree penne del Mondo di Pannunzio lodarono la fatica di Checco Zalone

Matteo Marchesini

Come la sinistra anni 50 e 60 avrebbe dibattuto di “Tolo Tolo”

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Nel riassumere per i nostri lettori la polemica in corso, ci limiteremo a dar loro i ragguagli essenziali. Sul “Contemporaneo”, Carlo Salinari ha festeggiato il passaggio di Checco Zalone dal neo-realismo più angusto al grande realismo socialista invocato da Lukács. Pochi giorni dopo però, su “Società”, Carlo Muscetta ha replicato osservando che l’eroe positivo risulta nella storia troppo “edulcorato”: secondo il critico di Avellino, per andare incontro a un gusto borghese l’autore avrebbe rinunciato a demistificare i riflessi pervasivi dello schiavismo imperialista, approdando a esiti consolatori e “meramente comico-idillici”. Quanto a Franco Fortini, nel suo tempestivo saggio “Lo zalonismo” ha rincarato la dose fustigando l’“illusione che nella attuale fase politico-economica italiana, romanzo e film possano svolgere una funzione ‘progressista’ e ‘popolare’ che non sia di retroguardia, illusione che nasce dalla indebita trasposizione nel nostro tempo della funzione progressista esercitata dalla letteratura nazional-popolare in una fase ormai tramontata della borghesia”. 

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Nel riassumere per i nostri lettori la polemica in corso, ci limiteremo a dar loro i ragguagli essenziali. Sul “Contemporaneo”, Carlo Salinari ha festeggiato il passaggio di Checco Zalone dal neo-realismo più angusto al grande realismo socialista invocato da Lukács. Pochi giorni dopo però, su “Società”, Carlo Muscetta ha replicato osservando che l’eroe positivo risulta nella storia troppo “edulcorato”: secondo il critico di Avellino, per andare incontro a un gusto borghese l’autore avrebbe rinunciato a demistificare i riflessi pervasivi dello schiavismo imperialista, approdando a esiti consolatori e “meramente comico-idillici”. Quanto a Franco Fortini, nel suo tempestivo saggio “Lo zalonismo” ha rincarato la dose fustigando l’“illusione che nella attuale fase politico-economica italiana, romanzo e film possano svolgere una funzione ‘progressista’ e ‘popolare’ che non sia di retroguardia, illusione che nasce dalla indebita trasposizione nel nostro tempo della funzione progressista esercitata dalla letteratura nazional-popolare in una fase ormai tramontata della borghesia”. 

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Fortini ha stigmatizzato il populismo semplificatorio dell’opera, nella quale i poveri risultano automaticamente migliori dei ricchi e l’ironia sullo stereotipo serve a confermarlo: “anziché rovesciare la tecnica regressiva e la retorica edificatoria degli avversari capitalisti”, ha scritto, “l’autore le sfrutta a fondo, pretendendo di colarvi dentro contenuti rivoluzionari che in questi stampi formali sono invece destinati a sciogliersi negli slogan sentimental-reazionari”. Come è noto, l’ultima fatica di Checco Zalone è stata rifiutata da Elio Vittorini a causa del suo “decadentismo”, ma ha subito trovato un altro produttore; e già la sera dell’uscita registrava un successo senza confronti. Alcuni critici spiritualisti, nonché alcune sulfuree e scettiche penne del Mondo di Pannunzio, l’hanno lodata per la “profonda umanità”, la “libertà” e “l’irriverenza coraggiosa” che dimostra, sottolineando come si tratti di qualità a cui gli ottusi schemi ideologici rendono la sinistra radicale fatalmente insensibile. D’altra parte, però, con argomenti speculari a quelli dei marxisti più intransigenti, anche certi critici della destra cattolica hanno storto il naso. Qualcuno, per esempio, giudica l’alter ego di Zalone un “Pierino dell’impegno etico”. I portavoce di tutte queste posizioni si ritroveranno la settimana prossima alla Casa della Cultura, dove si svolgerà una tavola rotonda sul tema. Naturalmente ne daremo conto con il solito scrupolo…”. 

 

 

Pasolini invece ha scritto all’autore una lettera aperta: “Caro Checco, ho potuto vedere alcune immagini del tuo film mentre guidavo tra le casupole di fango del bled algerino, dove ogni scoppiettio di motore, seppure assurdamente, mi faceva pensare alla guerra che molto più a est è entrata nella sua fase apocalittica. Non ci crederai, ma i tuoi colori stupendamente, grottescamente irreali, tra quelle dune erano quasi realistici. Quando ci siamo fermati a un povero chiosco per rifocillarci con qualche frittella, mentre l’olio ci colava dalle mani e il venditore, con la sua allegria deforme di figlio troppo consapevole, rideva della nostra goffaggine nell’addentarle, abbiamo cominciato a discuterne come per caso. Conosci bene, caro Checco, la bontà testarda di Moravia. Si è seduto sotto una palma, ha biasciato un po’ la frittella e ha emesso il suo giudizio irrevocabile: “Sordi più Collodi”. Nulla, lo sai, può smuoverlo dal primo epigramma. Quanto a me, che diritto ho di giudicare, io che meno di tutti in questi anni ho pensato, preso in un mio sogno eterno di ragazzo? Che diritto ho, se non quello di guardarti con la purezza impura di chi è ormai vinto dal Dopostoria? Camminavo tra i resti delle fattorie coloniche francesi, ed ecco che come un miraggio, muovendosi al mio passo da carrellata lenta, mi si disegnavano davanti il tuo sorriso d’italiano innocente e atroce, il rigonfiamento abbagliante che sotto i tuoi calzoncini di pinocchetto alla moda preserva in te il poco d’innocenza rimasta nello sfacelo denunciato dalla pancetta, dalla calvizie e dal velo di barba – segni di colpe paterne, di resa ormai antica al conformismo del sushi. C’è qualcosa, lo sai, di tecnicamente schizoide in questo tuo ultimo film, qualcosa che – orribile a dirsi – mi ti avvicina… Lo so, lo so che ora riderai. Sento già la tua battuta di macho pugliese che si abbatte sulla mia nuca ingenua. Eppure…”.

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