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Il biopic su Bettino Craxi è un’occasione mancata. Lungo e senza un’idea

Mariarosa Mancuso

Quasi tre finali dimostrano incertezza e “cinema d’autore”

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Comincia con funesti presagi, nel 1989 all’ex Ansaldo, scenografia di Filippo Panseca: Bettino Craxi ha finito il discorso, un delegato lo prende da parte per avvertirlo di strani movimenti e perquisizioni. “Non siamo l’unico partito che riceve finanziamenti, la chiesa rifornisce i suoi”. Non farebbe una grinza. Ma il delegato fa notare: “Ricordati che noi non siamo la chiesa. Siamo i cani in chiesa”.

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Comincia con funesti presagi, nel 1989 all’ex Ansaldo, scenografia di Filippo Panseca: Bettino Craxi ha finito il discorso, un delegato lo prende da parte per avvertirlo di strani movimenti e perquisizioni. “Non siamo l’unico partito che riceve finanziamenti, la chiesa rifornisce i suoi”. Non farebbe una grinza. Ma il delegato fa notare: “Ricordati che noi non siamo la chiesa. Siamo i cani in chiesa”.

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Finisce con una scena da varietà. Pier Francesco Favino pesantemente truccato da Bettino Craxi – ma trucco non è la parola appropriata: son protesi simili a quelle che hanno trasformato Gary Oldman in Churchill, nel film “L’ora più buia” di Joe Wright – seduto in carrozzella con la copertina sule gambe. Accanto a lui, sul palco, due attori da avanspettacolo (o da Bagaglino, un conto sono le intenzioni e un conto i risultati): un dottore e un maschio travestito da infermiera con il siringone scherzano (indovinate un po’?) sui soldi rubati.

 

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Finisce così “Hammamet” di Gianni Amelio (il titolo spiaccica un mazzo di garofani rossi). O almeno così credevamo. La scena visionaria alla “Ginger e Fred” poteva saldare il ventennale di Bettino Craxi – morto il 19 gennaio, ve lo stanno ricordando anche le vetrine delle librerie – e i cento anni dalla nascita di Federico Fellini. E si era già abbastanza avanti con l’orologio, al cinema lo si tira fuori dopo il primo sbadiglio.

 

Gianni Amelio abbonda, di finali ne apparecchia un altro paio. Per esperienza: il segno sicuro che il regista non aveva un’idea chiara per il film. Quella che i produttori americani chiedono di riassumere in due righe, al primo appuntamento, con i registi da finanziare. In un altro finale, appunto, vediamo Bettino Craxi sulle guglie del Duomo, a piedi nudi – e sappiamo bene quanta dietrologia hanno generato i piedi nudi di Paul McCartney sulla copertina di Abbey Road. Immaginiamo che incontrerà il delegato del malaugurio (sappiamo dal figlio che si è suicidato). Invece incontra il prete del collegio, dove bambino rompeva i vetri con la fionda. Terzo tentativo di chiudere, una visita all’ospedale psichiatrico (c’è un matto che crede di essere Craxi? No, non ancora, però c’è uno psichiatra democratico).

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“Hammamet” un’idea chiara non ce l’ha. Difetto grave, nel caso di un biopic – sia pure ridotto agli anni del declino e della malattia, per maggiore fedeltà il film è stato girato nella villa del presidente, così viene chiamato da quasi tutti. Esaurita la sorpresa per la somiglianza, e represso il fastidio per la musica invadente di Nicola Piovani, lo spettatore vorrebbe qualcosa che lo guidasse. Magari districando i personaggi reali dalle figure di fantasia (all’anteprima milanese credevamo di essere gli unici smarriti, la nostra memoria storico e politica è cedevole, ma erano confusi anche gli altri).

 

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Le scene migliori raccontano il leone morente. Ovvero il declino dell’uomo di potere, abbandonato da tutti e sottoposto a damnatio memoriae. Abbastanza per reggere più di un film. Il nipotino sulla sabbia gioca a fare Sigonella, con il cappello da Garibaldino, mentre il nonno sulla sdraio canta “Garibaldi fu ferito”. La figlia che amorosamente lo assiste – e gli vieta la pastasciutta – si chiama Anita, eredità di un vecchio progetto su Cavour e la sua rampolla. Un misterioso visitatore (lo scoprono le guardie del corpo sul fango della piscina vuota) prima viene scambiato per un terrorista e poi ospitato in casa, dove si aggira con la sua telecamerina personale.

 

L’obiettivo visibile in scena è il primo indizio di cinema d’autore, di idee che scarseggiano, di incertezza. Se poi i registi la smettessero di superare le due ore, sarebbe tanto di guadagnato, soprattutto quando la sceneggiatura non le regge, e comincia l’indugio su Pierfrancesco Favino nelle più classiche pose craxiane (e guardane una e guardane un’altra sembrano quadri viventi). Arriva anche la gente – poco prima disprezzata da Craxi in un monologhetto: “Non si parla più di popolo, ora c’è la gente” (sapesse adesso, che abbiamo i clic su Rousseau). Scendono da un pullman turistico e lo insultano, chiedendosi dove ha nascosto quel che si è “arrubbato”, e dove fa la bella vita da nababbo, fingendosi malato.

 

Poteva mancare l’amante, fornita da un regista che vuole dire al mondo tutta la verità, con un occhio agli incassi? Entra – e subito esce – Claudia Gerini in vestaglia semiaperta su completino sexy nero. Ha già rilasciato molte interviste, spropositate alla brevità e all’insulsaggine della scenetta.

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