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Niente bambole alla Berlinale

Mariarosa Mancuso

In Isle of Dogs di Wes Anderson, tra teleferiche e giapponeserie, c’è un angolo dove le molestate possono scambiarsi le brutte esperienze

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Bisognerebbe studiare l’ossessione di Wes Anderson per le teleferiche e i carrelli sospesi. Erano al centro di una scena spassosa in “Grand Budapest Hotel”, il film che aprì tra grandi applausi la Berlinale 2014. Tornano in “Isle of Dogs” – il film che ha aperto tra gli applausi la Berlinale 2018 – e hanno l’insistenza di una firma. Vero è che siamo in un’isoletta piena di spazzatura, in parte ordinata e pressata in cubi (sembra sia appena passato il robot spazzino “Wall-E”) in parte ammucchiata come capita. Vero è che per movimentare la spazzatura e portarla all’inceneritore i cartellini sono utili perché scaricano dall’alto. Ma il loro fascino cinematografico si deve al regista che venera e coltiva la simmetria (qui deve essere il segreto: la teleferica può muoversi senza guastare la composizione). “Grand Budapest Hotel” rendeva omaggio alla Mitteleuropa: grandi alberghi, personale in divisa con bottoni dorati, pasticceria raffinata, i quadri di Gustav Klimt e di Egon Schiele (ora appannaggio delle donne “di una certa cultura”, sostiene Roberto Venturini da poco premiato con il Bagutta opera prima). “Isle of Dogs” è una magnifica giapponeseria: spade e samurai, teatro kabuki, taglio del pesce per il sushi, kimono, lottatori di sumo, tamburi, ciliegi in fiore, perfino un kamikaze con il suo aeroplano, infradito con il rialzo da portarsi con il calzino bianco, ideogrammi nei titoli di testa. Tutto minuziosamente fabbricato con l’animazione a passo uno. Tecnica – antica, i pionieri del cinema la adoperavano per animare scarafaggi e silhouette – già usata in “Fantastic Mr. Fox”: sembrava di toccare le righe del velluto e la seta del tubino di Mrs. Fox, e le mutande a costine che vengono usate come passamontagna per la rapina. “Tutto” qui vuol dire le giapponeserie, l’isola della spazzatura, i cani che sull’isola vengono deportati per decreto emesso da un politico che li odia (lui e i suoi si fanno sempre fotografare con il micio in braccio). 

 

Sostiene che sono malati di una strana influenza, devono essere messi in quarantena. Per dare il buon esempio, manda sull’isola il cane (nonché bodyguard) di Atari Kobayashi, eroico dodicenne che pilotando l’aeroplano va alla ricerca dell’amico perduto.

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I cani sull’isola sono piuttosto malconci, per via di certi duelli da western necessari per guadagnarsi la spazzatura commestibile. Wes Anderson li gira come un fumetto: una nuvola di polvere da cui escono zampe (anche metalliche, quando sull’isola arriveranno i cani robot). Cercano di fare squadra – agli ordini di Kobayashi, un cane non aspetta altro che un padrone – per ritrovare il disperso. “O moriremo nel tentativo”, da veri eroi. In città, gli scienziati cercano una cura per la contagiosa epidemia, i giovani hacker spiano, le giovani attiviste protestano.

 

C’è una sola cagnetta, tra i mucchi di spazzatura. Seducente e leggiadra, lavorava in un circo e ancora ricorda qualche numero. C’è anche una scienziata assistente (doppiata da Yoko Ono, tra le altre voci Bryan Cranston, Edward Norton, Bill Murray, Greta Gerwig). Poche, se dovessero passare le quote rosa nei film. Viene un brivido a pensarci. Ma abbiamo appena scoperto che alla Berlinale c’è un “counseling corner”: un angolo dove le molestate possono scambiare in pace le brutte esperienze. Sono previsti un seminario e un dibattito sul tema, mentre l’ultimo briciolo di buon senso è servito a non far diventare nera la passerella rossa dove sfilano le star.

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Dopo #metoo e #timesup arriva da Berlino #nobodysdoll; lo ha lanciato l’attrice – a noi finora sconosciuta, un risultato l’ha ottenuto – Anna Brüggemann. “Non siamo le bambole di nessuno”: in passerella si va vestite comode, niente tacchi alti o vestiti da sera attillati. La prima firmataria – altre settanta seguono – propende per scarpe da ginnastica e maglione a collo alto (non è uno scherzo, lo ha dichiarato al Guardian). Vogliono allontanare da sé “lo sguardo patriarcale del maschio”. Sperano che l’epidemia contagi gli Oscar.

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