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Con la sfiga nel menu

Michele Masneri

Da Antonello Colonna a Filippo La Mantia. I ristoranti milanesi alle prese con i disastri del lockdown

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Se è vero che la ristorazione è l’unica cosa seria in Italia (cit.), sarà interessante capire come si riorganizzano i ristoranti nel dopo lockdown nella città italiana più ossessionata dal mangiar fuori in Italia: Milano. Roma si sa che non fa testo, Roma ha reagito con la proliferazione dei tavolini, a Roma si mangia anche a casa, in fondo è la stessa cosa, ma a Milano, la Milano delle migliaia di posti sempre nuovi, che cambiano nome e indirizzo forsennatamente, e già dopo sei mesi quando finalmente trovi posto non vanno più bene, che succede?

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Se è vero che la ristorazione è l’unica cosa seria in Italia (cit.), sarà interessante capire come si riorganizzano i ristoranti nel dopo lockdown nella città italiana più ossessionata dal mangiar fuori in Italia: Milano. Roma si sa che non fa testo, Roma ha reagito con la proliferazione dei tavolini, a Roma si mangia anche a casa, in fondo è la stessa cosa, ma a Milano, la Milano delle migliaia di posti sempre nuovi, che cambiano nome e indirizzo forsennatamente, e già dopo sei mesi quando finalmente trovi posto non vanno più bene, che succede?

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Qualcuno prova a riaprire, come il siciliano Messere di via Savona, sperando che la temuta seconda ondata non arrivi

Le voci si susseguono tragiche, ha chiuso perfino il Paper Moon! Qualcuno prova a riaprire, tanti avevano inaugurato pochi giorni prima del lockdown, come il siciliano Messere di via Savona: e adesso timidamente riapriranno, sperando che la temuta seconda ondata non arrivi mai. Altri si ridimensionano, come Filippo La Mantia, altro siculo, anzi siculo romano, milanesizzato. Chi non si ferma è Antonello Colonna, protagonista culinario della Roma anni Duemila e che ora ha dirottato qui. Risponde da un Frecciarossa, dove ormai praticamente vive. Ha riaperto dopo il Covid il suo ristorante a piazza Cordusio, e, dice, sta per lanciare una serie di nuovi avamposti, non solo a Milano ma anche a Como, e perfino a Lugano. Sfida la crisi e solo al nord, nel territorio più colpito. “Cosa vuoi, Roma non mi dà più stimoli. Non ci vado proprio più”, dice al Foglio, insomma passa dai suoi posti milanesi e lombardi e in futuro svizzeri al modernissimo resort con fattoria a Labico in Ciociaria, tagliando fuori Roma tipo flyover. “Sai, io ho vissuto il sogno romano”, sospira dal Freccia. Il sogno romano era la capitale veltroniana e poi alemanna dei gran musei, dell’arte contemporanea, delle archistar. “L’auditorium…”, sospira, e il palazzo delle Esposizioni, su cui Colonna mise il suo celebre ristorante, il rooftop che per anni ha celebrato presentazioni e mostre di quando Roma tirava, mentre si sgattaiolava dalle inaugurazioni, su, e a un certo punto i pochi fortunati dai vernissage si infilavano in un ascensore, e filavano su, al ristorante con le terrazze su via Nazionale…

  

La Mantia si ridimensiona: “Il ristorante è tutto pieno anche stasera”, ma sono venuti meno gli eventi e le consulenze

Adesso, però, via Nazionale è il paseo di disgrazia di una Roma sudamericanizzata, con la Raggi che dopo lavori complessi ha trasformato lo stradone in un curioso patchwork di asfalto e sanpietrini tipo marciapiedi di Copacabana (ma senza quell’energia). E’ tutto un mortorio, e sarà un caso ma il nuovo avamposto romano, che pure ha aperto, Colonna l’ha aperto alla stazione Termini, nel posto quindi più vicino a Milano. “Abbiamo inaugurato il 20 febbraio e chiuso subito dopo per il Covid”, dice, tempismo infelice, pure lui, però adesso è molto soddisfatto. “Termini sta ripartendo. E’ un salotto, anzi un ristorante con uso di stazione”, dice Colonna, che si va ad aggiungere a quel compound gastronomico nato in prossimità dei binari, con la presenza del Mercato Centrale, assembramento di ghiottoni tra pizza di Bonci e altre magnificenze romanissime, in primis il Trapizzino. Roma insomma, città in sofferenza da ogni punto di vista, pare tenere botta solo sul cibo, settore in cui sta tirando fuori energie mai viste (energie che poi convergono su Milano, o almeno alla stazione).

  

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La stazione ormai farcita di pizza e pane e supplì, naturalmente “gourmet”, e appunto di Trapizzino, questo moderno ritrovato di “street food”, collega le due città verso il fatale anniversario, i 150 anni della capitale d’Italia, tra pochi mesi. “Triangolo di fragrante pan pizza, imbottito con sugosi alimenti romaneschi. Pollo alla cacciatora, broccoli e salsiccia, lingua in salsa verde, coratella con carciofi, polpetta al sugo, caponata di verdure, misticanza, bollito, picchiapò (lesso di manzo ripassato nel sugo di pomodoro e cipolla)”, questa la definizione del trapizzino by Camilla Baresani.

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Il Trapizzino, vanto dell’export romano, l’ha inventato il pizzaiolo Stefano Callegari, al Testaccio. Luogo di romanità atavica

“Comfort food trucido inventato a Roma, che spopola a Milano e nel mondo”, dice. Certo, la città non esporterà più Valentino (ora degli emiri) ma il Trapizzino, ma sempre meglio di niente. “Succulento ed economico. Una lordura dal punto di vista dietologico, tanto caro ai milanesi, e anche dal punto di vista di come lo si mangia, stilisticamente parlando. Ci si sporca sempre. Però sempre cento volte meglio dell’enfasi sull’hamburger costoso e piramidale che ha infestato l’alimentazione milanese”.

  

Il Trapizzino, vanto dell’export romano, l’ha inventato il pizzaiolo Stefano Callegari, al Testaccio (e dove, sennò?). Luogo di romanità atavica, sta colonizzando così il mondo e Milano, con questo cibo poco costoso e umile. Ma un altro testaccino che si sta impossessando di Milano è Felice (appunto) a Testaccio, ma a Milano, alle Colonne di San Lorenzo, succursale dello storico ristorante capitolino. Impossibile trovare un posto. Il fatto è che dopo un po’, “tra risotti e cotolette hai voglia di cicoria, di cacio e pepe”, mi dice una romana di stanza a Milano.

  

I ristoranti romani a Milano “non è che sian poi così tanti, saranno cinque o sei”, mi dice Allan Bay, critico e gastronomo anglo-milanese. “E però onore al merito: resistere su una piazza come quella di Milano, molto selettiva, molto dura, non è facile”. Piazza molto dura ma un po’ insipida. “Ma sai, la cucina milanese non esiste, non è mai esistita”, mi dice Dominique Antognoli, blogger e critico gastronomico. “Così Milano è sempre stata terra di conquista per cucine più gustose, la napoletana, la pugliese. I romani sono stati gli ultimi ad arrivare a Milano, dove da sempre c’erano appunto i pugliesi, i campani. Ma a differenza loro i romani non sono sussiegosi, non fanno come il napoletano che ti dice: la pizza la so fare solo io. Il romano viene percepito come simpatico, un po’ cazzaro”.

  

Così “forse i ristoranti romani a Milano hanno successo perché in fuga dall’eterna cotoletta e dall’eterno risotto, i milanesi sono ormai tremendamente annoiati dalle cucine fusion, dai sushi e dai poke e dalla presunta primarietà della cucina coreana o vietnamita, sbancati dalla cucina creativa degli chef famosi. Trovano un’atmosfera confortevole e familiare nelle trattorie romane. L’unica cosa di Roma che in fin dei conti attrae i milanesi nativi o acquisiti”, dice ancora Baresani. E un altro posto di gran successo, non romano ma siculo, o siculo-romano, gestito però con l’animo dialogante di chi ha vissuto nella capitale, è quello proprio di Filippo La Mantia, oste e cuoco come si definisce lui, giammai chef, che dall’enorme ristorante di piazza Risorgimento (a Milano) adesso si sposterà in un posto più piccolo (sempre a Milano: mai più Roma). Già fotoreporter con fama maledetta, incarcerato per fumose accuse di mafia, in carcere all’Ucciardone ha imparato a cucinare, ha fatto sognare generazioni di dame romane, e poi a un certo punto, negli anni Dieci, quando Milano ha cominciato ad arrembare, si è trasferito. Ha preso in mano un tempio di milanesità, il “Gold” di Dolce e Gabbana e ci ha messo la caponata. Adesso si sta ridimensionando, appunto, e la notizia ha fatto scandalo, si temeva un flop da pandemia, invece no, non è perché gli affari vanno male, dice La Mantia, “il ristorante è tutto pieno anche stasera, più la gente nel déhor che fa l’aperitivo”, ma son venuti meno tutti gli eventi e le consulenze, che “son le cose di cui campa un ristorante oggi”. Dunque ristorante come show room. E Milano senza gli eventi cos’è? Nulla.

  

Questo davvero preoccupa. Così lui adesso sta cercando un altro posto, “da quando è uscita la notizia ho ricevuto una quantità incredibile di offerte, dal nord fino a Canicattì, ma io voglio rimanere a Milano”. Di tornare a Roma non se ne parla, nonostante i ricordi gloriosi. Negli anni Novanta prese in mano il Majestic di via Veneto e ne fece la tappa obbligata della cena e del dopocena. Ma prima ancora, fu cooptato soprattutto dai famigerati salotti romani: “Lavoravo in un piccolo ristorante dietro piazza Navona, la Zagara, quando mi chiamò una certa signora Sandra e mi disse che era venuta a cena, le era piaciuto il cibo e se potevo cucinare per la festa di compleanno di una sua amica. Mi presentai, col mio chiodo e con la mia Harley, all’indirizzo stabilito, ricordo un gran citofono dorato, e scoprii che l’amica era Marta Marzotto” (mentre Sandra era ovviamente Carraro). Poi col suo chiodo e la sua Harley e con la mitologia sicula La Mantia ha fatto sfracelli a Roma: era un’epoca pre-televisiva, coi cuochi non ancora star dell’immaginario, e infatti lui piaceva proprio per il suo essere un non-chef ( (“Mi chiamarono per una pubblicità di certe patatine, dissi di no, poi un collega accettò, ma non mi sono mai pentito”). Gli otto mesi all’Ucciardone, perché da un appartamento in cui aveva abitato partirono gli spari che avevano ucciso il vicequestore Ninni Cassarà, aggiungevano fama criminale al suo sapor mediorientale.

  

Adesso chissà dove andrà, la Milano-stato nazione si è messa a disposizione, il comune lo sta aiutando a trovare un altro indirizzo, forse sarà meno scintillante di questo: che porta con sé peraltro la maledizione di un cibo identitario, la cotoletta di D&G che alla Baresani costò la rubrica sul Sole. Era il 2006, i piccini si ricorderanno, e sul quotidiano di Confindustria lei scrisse una gustosa critica del ristorante, che iniziava così: “In un clima di euforia posticcia alla Doris Day, si nuota in grandi spazi dorati, un po’ Trump Tower un po’ quel lussuoso vintage anni Cinquanta in gran voga fra gli antiquari di Brera”. Per finire sulla cotoletta. “La più cattiva che abbia mangiato in vita mia, oleosa, inspiegabilmente dolciastra (che aggiungano zucchero alla panatura?), troppo brunita sui bordi, gommosa. Mi ha fatto pensare a quelle che ammanniscono in certi baretti del centro, cucinate dal gestore la sera prima a casa, in qualche paese dell’hinterland, e riscaldate il giorno seguente nel microonde, per i frettolosi pasti degli impiegati”.

  

La cucina romana piace a Milano. E forse solo alla stazione Termini arriverà un giorno qualcuno a offrire ossobuchi e risotti

Quegli impiegati che oggi son desaparecidos a causa dello smart working! Ah, riaverli indietro. Ma intanto la cotoletta fatale causò disastri, D&G minacciarono di togliere tutta la pubblicità al Sole, Baresani venne cacciata, da altri fu stilata una rubrica riparatoria, insomma, un disastro. Poi la nemesi (e la fine del Gold, nel 2014) e la caponata. Oggi, nuovamente quei locali rimarranno vuoti (e chissà chi si potrà permettere i 28 mila euro di affitto mensile, che gli stilisti, rimasti proprietari delle mura, hanno però scontato a La Mantia durante i mesi del Covid). Ma forse ci sarà un generale ripensamento su dimensioni e metrature ed estetica, chissà. Quello che è sicuro è che la cucina romana a Milano continua a piacere.

  

“La cosa curiosa è che i romani dicono che a Milano si mangia meglio. E i milanesi viceversa”, dice la Baresani. E però non si dà il reciproco: a Roma ristoranti milanesi non ce ne stanno. “Il fatto è che a differenza di quella romana, la cucina milanese non ha retto la sfida della modernità. E’ una cucina borghese, che non si è adattata ai cambiamenti, non si può fare sui grandi numeri”, dice Allan Bay. “Al contrario di quella romana, molto basata sulla pasta, dunque assemblabile facilmente prima di andare a tavola”. Insomma, il risottino non è esportabile. Per sicurezza faccio una ricerca. Trovo un ristorante che pare milanese. Si chiama “Velando”, sta dalle parti del Vaticano, e il nome fichetto, gerundio, parrebbe confermarne una certa milanesità: ma studiando un po’ capisco che non è per niente milanese, fa cucina “della Valcamonica”. Argh. Conoscendo quei luoghi, più noti per posaterie e armerie e rubinetterie e accenti gutturali, non avevo mai considerato che vi fosse una cucina con potenziale da esportazione. Ma forse mi sbaglio: certo, c’è il bagos, roccioso formaggio stagionatissimo bresciano. Il menu però ricorda la Milano da bere, il risotto “con porcini e frutti di bosco” (contraddicendo dunque la teoria di Bay). Manca solo la spigola coi porcini, la famigerata cucina mari & monti. Chissà, avrà un suo pubblico di nicchia, a Roma – sul sito c’è addirittura un endorsement di Renzo Piano (“è un posto molto carino, intimo, dove si può chiacchierare e dove si mangia benissimo”). Forse solo alla stazione Termini arriverà un giorno qualcuno a offrire ossobuchi e risotti. Intanto, anche al netto del Covid, si può dire oggi, con colossale nemesi, che la cosa migliore di Roma è il treno per Milano? “Sì, possiamo dirlo”, conferma Antonello Colonna, mentre il segnale si perde in una galleria dell’alta velocità.

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