Joseph Ratzinger e cardinale Joseph Zen (Ansa)

I rapporti con l'Estremo Oriente

I princìpi non negoziabili che Ratzinger presentò ai governanti cinesi

Massimo Introvigne

Con la “Lettera ai cattolici cinesi” Benedetto XVI ha posto le basi dei rapporti con Pechino durante il suo pontificato. Su alcuni punti il documento dava soddisfazione al Partito comunista, ma rimarcava alcuni confini: anche in Cina la struttura della Chiesa doveva rimanere "petrina" e "apostolica"

Nel 2018, quando la Santa Sede e la Cina si apprestavano a firmare l’accordo, poi rinnovato due volte nel 2020 e nel 2022, il cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong, pubblicò sul suo blog un durissimo attacco al segretario di stato vaticano cardinale Pietro Parolin, accusandolo di manipolare la “Lettera ai cattolici cinesi” di Benedetto XVI del 27 maggio 2007 e perfino di falsificarne il testo. Nella sostanza, Zen accusava la Santa Sede di inventare un’inesistente continuità fra l’atteggiamento nei confronti della Cina di Benedetto XVI e di Papa Francesco. Secondo Zen, Papa Francesco e la segreteria di stato si apprestavano invece a tradire il testo e lo spirito della celebre “Lettera” di Benedetto XVI.

Chi aveva ragione? C’è stata continuità o discontinuità nella politica sulla Cina di Benedetto XVI e Francesco? La “Lettera” del 2007 è stata un documento sofferto e di lunga elaborazione tra Papa e segreteria di stato, tanto che fu pubblicata insieme a una “Dichiarazione”, una “Nota esplicativa” e un “Compendio”. Sappiamo oggi che il testo era anche il risultato di discrete discussioni fra la diplomazia vaticana e la Cina.

Certamente, la “Lettera” dava soddisfazione al Partito comunista cinese su tre punti di non secondaria importanza. Revocava le direttive pastorali, sia pubbliche sia discrete, che autorizzavano forme di disobbedienza civile nei confronti dello stato. Esprimeva disponibilità a trattare con il regime sulle province ecclesiastiche, il che segnalava fra le righe una certa disponibilità al dialogo perfino sulla questione di Taiwan. E non escludeva “un accordo con il governo” sulle future scelte dei vescovi, fermo restando che ogni nomina sarebbe spettata sempre e solo al Papa. Ufficiosamente, si faceva filtrare una disponibilità alla soluzione in vigore in Vietnam, e che aveva illustri precedenti storici in Europa, secondo cui la Chiesa avrebbe sottoposto allo stato una rosa di candidati, tra i quali il governo cinese avrebbe espresso una sua preferenza.

Certamente, vi era qui un atteggiamento più conciliante rispetto al pontificato di Giovanni Paolo II – che per esperienza personale in Polonia era molto più diffidente nei confronti dei governi comunisti – accompagnata sul terreno dalla nomina, nelle diocesi dove questo era possibile (dunque non in tutte), della stessa persona come vescovo della “Chiesa patriottica” fondata nel 1957, controllata dal regime e considerata scismatica dalla Santa Sede, e della Chiesa “clandestina” fedele a Roma. In pratica, la differenza fra le due Chiese rimaneva, ma in alcune diocesi le due organizzazioni erano unite dall’avere lo stesso vescovo

Tuttavia, Benedetto XVI, il Papa dei “princìpi non negoziabili” aggiungeva un richiamo al fatto che la struttura della Chiesa doveva rimanere anche in Cina “petrina” e “apostolica”. La lettera del 2007 rilevava la compresenza in Cina di tre tipi di vescovi: quelli clandestini fedeli a Roma; quelli della “Chiesa patriottica” che però erano stati segretamente ricevuti nella comunione con Roma (anche se non sempre lo avevano rivelato ai loro fedeli, e ora Benedetto XVI li esortava a farlo), e i vescovi “patriottici” che non si erano mai riconciliati con Roma. I fedeli cinesi, secondo la “Lettera”, potevano lecitamente partecipare alle messe dei primi e dei secondi, e dei sacerdoti da loro ordinati; mentre quelle dei terzi erano valide ma illecite, e il fedele poteva assistervi solo quando non potesse “senza grave incomodo” trovare una messa celebrata in comunione con il Papa. Quanto al “Collegio dei vescovi cattolici di Cina”, riconosciuto dal regime e che riuniva i vescovi “patriottici”, per Benedetto XVI non si trattava di una vera conferenza episcopale e anzi era un soggetto che presentava “elementi inconciliabili con la dottrina cattolica”.

Era possibile una riconciliazione che riportasse anche il terzo tipo di vescovi – i “patriottici” non riconciliati con la Santa Sede – all’interno della Chiesa cattolica? Sì, rispondeva Benedetto XVI, ma invitava a guardarsi sia dall’oltranzismo di chi escludesse a priori qualunque trattativa sia dall’irenismo di chi concepisse il dialogo come semplice cedimento del Vaticano al modello “patriottico”. In un passaggio cruciale della “Lettera”, il Papa tedesco scriveva che “la soluzione dei problemi esistenti non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità civili; nello stesso tempo, però, non è accettabile un’arrendevolezza alle medesime quando esse interferiscano indebitamente in materie che riguardano la fede e la disciplina della Chiesa”.

Di fatto, finché Benedetto XVI è rimasto Papa, non si è mai arrivati a un accordo,  perché le autorità cinesi pretendevano di scegliere loro i vescovi – che il Papa avrebbe dovuto soltanto consacrare – e di fare aderire tutti i cattolici alla Chiesa patriottica, conservandone le strutture e i princìpi, compresi quegli elementi che Papa Ratzinger aveva dichiarato “inconciliabili con la dottrina cattolica”. Francesco ha accettato queste condizioni, ritenendo che la fine dello scisma e della pluridecennale separazione fra Chiesa patriottica e clandestina fosse un bene tale da autorizzare quei compromessi che il suo predecessore aveva rifiutato.

Vi è poi un altro elemento di discontinuità fra Benedetto XVI e Francesco, spesso trascurato. Nella “Lettera” del 2007 Papa Ratzinger ricordava che la Chiesa non può rinunciare in nessuna parte del mondo, neppure nella Cina che aveva il record mondiale degli aborti e pretendeva di limitare per legge il numero dei figli, ad annunciare “il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia”. Non ci sarebbe libertà religiosa, scriveva Benedetto XVI, se la Chiesa fosse lasciata libera di predicare sulla fede ma non potesse denunciare in modo “vivo e stringente” le “forze che in Cina influiscono negativamente sulla famiglia”. Questa richiesta di libertà di parola su vita e famiglia, “non negoziabile” per Benedetto XVI, sembra pure essere stata lasciata cadere dal suo successore.

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