(foto LaPresse)

L'ultima trincea di Papa Francesco

Mentre il mondo pensa alle sue dimissioni, Bergoglio rivolta la curia e il futuro Conclave. Con un unico obiettivo: evitare che si torni indietro

Matteo Matzuzzi

A Pentecoste è entrata in vigore la costituzione “Praedicate Evangelium”, che ridefinisce dopo trent’anni la struttura della curia romana. Un lavoro durato otto anni

Arriva l’estate, è tempo di gialli e spy story sotto l’ombrellone e quindi si riparla delle dimissioni del Papa. Francesco non cammina quasi più, la sedia a rotelle lo accompagna nelle udienze quotidiane e nelle celebrazioni in San Pietro, l’età sale inesorabilmente. E poi quella strana agenda di viaggi internazionali messi di fretta l’uno dopo l’altro nella calura di questo 2022: Congo e Sud Sudan all’inizio di luglio (proprio venerdì è stato rimandato a data da destinarsi per non compromettere la guarigione del ginocchio malandato), Canada a fine luglio. Quindi il concistoro, la riunione dei nuovi cardinali – la prima dopo la celebre “relazione Kasper” del 2014 – e la mezza giornata prevista all’Aquila in pellegrinaggio da Celestino V. Il materiale per il libro dell’estate c’è tutto, se non fosse che risulta complicato pensare a un Papa che finalmente riesce a mettere in campo l’agognata riforma della curia (e, si vedrà, se propiziatoria di quella della Chiesa) e poi a lavoro appena iniziato decide di rinunciare, pure lui, al Soglio petrino, per ritirarsi chissà dove. Supposizioni, chiacchiere d’inizio giugno non suffragate da alcunché. Spesso sono le speranze di tanti, e non solo nel cosiddetto campo conservatore, che invocano il vino nuovo. Proprio come dieci anni fa.

 

Al di là della trama perfetta per il romanzone estivo perfetto per essere divorato in spiaggia, la questione centrale è che la promessa riforma della Chiesa (o la riforma nella Chiesa) ha visto la luce. Il cardinale Oscar Maradiaga, gran consigliere del Papa argentino e coordinatore del Consiglio cardinalizio che assiste Francesco nel governo della Chiesa universale e che ha preparato la riforma della curia romana entrata in vigore domenica scorsa, l’aveva detto: più che le strutture, la rivoluzione riguarderà le persone. In modo da cambiare “mentalità” a chi oggi lavora nei Sacri Palazzi. Le nomine saranno decisive, non altro. Il vento della fresca primavera, che sempre il porporato honduregno aveva avvertito fischiare forte nel 2013, gonfia le vele della Barca petrina verso il largo, verso quelle periferie sui cui è stata imbastita, sovente con abuso di melassa, la narrazione del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Tutto, infatti, è spiegato con la periferia: i viaggi del Papa sono nelle periferie del mondo, i nuovi cardinali sono preti pescati nelle periferie, i sinodi sono convocati per dar voce alle periferie. Periferie geografiche, esistenziali, sociali: tutto è periferia. L’unica tangibile e grande periferia della Chiesa, l’Europa delle cattedrali così cara a Robert Schuman, è dimenticata. Come se per Francesco quasi non esistesse. Quasi non fosse più neppure un problema: “Cosa ti è successo Europa?”, disse ricevendo il Premio Carlo Magno nel 2016, constatandone la letargia e l’involuzione da somma idea a monstrum burocratico privato della sua anima. Mai un viaggio al suo cuore, mai un grande discorso sul Vecchio continente piegato dalla secolarizzazione che non è più incalzante, ma è ormai vittoriosa. Landa desolata della fede, con i suoi pastori che progettano sinodi vincolanti per svoltare e rivoluzionare dottrina e pastorale, tentativo ultimo per invertire una china ammiccando al mondo e a chi, magari, decide di farsi cattolico notando il maquillage di una Chiesa nuova del Terzo millennio identica a una delle tante ong. Il Collegio cardinalizio, il club esclusivo che come compito supremo ha l’elezione del vescovo di Roma, è sempre meno europeo: l’Asia ha raddoppiato gli elettori rispetto al 2013, le Americhe sono cresciute, l’Africa un po’ meno. Ma è l’Europa la grande dimenticata. Quasi che fosse data per persa, continente fra i tanti, senza speranza. 

 

Non si tratta, qui, di rivendicare la porpora per uno o per l’altro vescovo, di mostrare i santini dei preferiti indicandoli sull’album delle figurine. E’ solo la constatazione di un cambiamento epocale, per altro già avvenuto altre volte nella bimillenaria storia della Chiesa: fino all’Ottocento compreso, a eleggere i Papi erano per lo più i vescovi “italiani”, di diocesi piccole e numericamente insignificanti: Imola, Cesena, Senigallia. Del resto d’Europa, poco. Del mondo, quasi niente. Poi l’apertura a inizio Novecento, lo stupore per il primo cardinale sudamericano creato da Pio X, l’emozione quando Giovanni XXIII impose la berretta sul capo del tanzaniano Laurean Rugambwa. Oggi l’eccezione si è fatta norma. Così, quando il prossimo 27 agosto Francesco chiamerà uno per uno i nuovi sedici elettori, si apprezzerà davvero l’universalità della Chiesa: un coreano, un nigeriano, due brasiliani, un ghanese, un paraguayano, l’arcivescovo di Singapore, il primo vescovo di Timor Est, due indiani, il prefetto della minuscola Chiesa mongola. Non c’era bisogno di un nuovo concistoro, ché non si registrava penuria di cardinali under ottantenni (cioè quelli con diritto di voto): Francesco ha voluto sforare il tetto fissato a suo tempo da Paolo VI (120), arrivando fino a quota 133. Giovanni Paolo II lo faceva spesso, anche se i suoi concistori erano più diradati nel tempo. Ma è indubbio che Bergoglio voglia dare segnali, il primo dei quali è la volontà di ridisegnare il collegio che ne sceglierà il successore. Il disegno è chiaro fin dal principio, quando decise di abolire di fatto le sedi tradizionalmente cardinalizie, lasciando fuori dalla Cappella Sistina grandi sedi metropolitane e facendovi entrare piccole diocesi sperdute con poche migliaia di fedeli. Con qualche eccezione alla narrazione, però: su consiglio del compianto e fidato amico Godfried Danneels, punta di diamante dell’ala liberal della Chiesa, non attese troppo prima di fare cardinale Jozef De Kesel, arcivescovo della meno periferica di tutte le città d’Europa, Bruxelles, lasciando il predecessore André-Joseph Léonard, unico vescovo conservatore belga, senza porpora dopo una successione cardinalizia lunga secoli. Del resto, appunto, più che la sede conta l’uomo. E il suo orientamento.
Significherebbe infatti fare torto al Papa regnante se si considerassero tali scelte “periferiche” soltanto come una sorta di sfizio “esotico” finalizzato a internazionalizzare il più possibile il plenum degli elettori. C’è una chiara e del tutto legittima matrice politica nell’elenco dei nuovi cardinali che il Papa ha annunciato a fine maggio. E la stessa traccia era presente in tutti gli altri concistori che si sono susseguiti dal 2014 in poi. Non c’è niente di scandaloso, il Papa può fare ciò che preferisce e la berretta la dà a chi vuole lui. Semplicemente, si torna a quel che diceva Maradiaga: cambiare mentalità e cambiare uomini. Francesco, dicono i suoi sostenitori ha la preoccupazione che la rotta che ha impostato per la Chiesa non subisca deviazioni, magari tornando indietro. E per farlo ha bisogno di una squadra che ne condivida la linea. “Si ha come l’impressione che con queste nomine il Papa si voglia garantire il controllo della successione”, diceva qualche anno fa – a proposito di un altro concistoro – il cardinale Walter Kasper. Dopotutto, aggiungeva, “al prossimo Conclave è difficile che si possa eleggere un Papa ‘contrario’, la gente non lo accetterebbe. Non penso sia possibile invertire la marcia, la gente ama un Papa normale, umano e non un Papa imperiale come nel passato”.

 

Francesco si è parecchio risentito, poco meno di un anno fa, quando nei vicoli attorno al Vaticano si chiacchierava di Conclave, con gruppetti di porporati intenti a fare calcoli su quanti voti avrebbe potuto ottenere uno e quanti ne sarebbero serviti per bloccare un altro. E’ sempre accaduto, il pre Conclave mediatico dell’aprile 2005 è iniziato quasi un decennio prima, con metà dei papabili ipotizzati a metà degli anni Novanta abbondantemente morti quando si trattò davvero di entrare in Sistina alla fine del pontificato giovanpaolino. Si sa, l’elezione papale è questione umana. Certo, lo Spirito santo aiuta, fa – per dirla con Ratzinger – da “educatore” ma è arduo dire che sia proprio lui, lo Spirito santo a eleggere il Pontefice: “Probabilmente l’unica sicurezza che egli offre è che la cosa non possa essere totalmente rovinata. Ci sono troppi esempi di Papi che evidentemente lo Spirito Santo non avrebbe scelto”. E anche l’ultimo Conclave, quello che ha eletto Jorge Mario Bergoglio, non ha visto prevalere uno sconosciuto. Otto anni prima il vaticanista Lucio Brunelli su Limes, ricostruendo il diario di un anonimo elettore, scrisse – numeri alla mano – che il più votato dopo Ratzinger era stato proprio l’arcivescovo di Buenos Aires. Al di là di ciò, Francesco sta ridisegnando la mappa del suo governo. 

 

Fatta la riforma della curia, ora tocca a chi questa macchina dovrà guidarla. La Praedicate evangelium, questo il nome, è una costituzione rabberciata e pasticciata: refusi, mancanza di norme transitorie, contraddizioni. Un po’ paradossale per un documento che è rimasto in gestazione per più di otto anni. Non a caso chi ci ha lavorato, con un quasi impercettibile velo d’imbarazzo assicura che sarà aggiustata strada facendo. Eppure è una pietra miliare. Perché al di là della ridefinizione dei sostantivi usati per gli uffici – addio congregazioni e pontifici consigli, arrivano i dicasteri – la struttura dà l’idea della Chiesa che ha in mente Bergoglio. Evangelizzazione prima della dottrina, spazio alla carità, più coinvolgimento di laici e donne. Francesco ha faticato in questi nove anni e mezzo di pontificato a rivoltare la curia come un calzino, facendo partire da Roma il nuovo corso che non pochi auspicavano subito dopo averlo visto comparire sulla Loggia delle Benedizioni della basilica vaticana, nel marzo del 2013. Ha fatto spostamenti, ha creato commissioni, ha infarcito di nuovi cardinali il Collegio. Ma al di là delle note vicende processuali che hanno portato alla decapitazione metaforica di porporati un tempo assai vicini, i problemi sono arrivati tutti da fuori.

 

Andare al largo senza conoscere la meta prefissata, comporta dire anche rischi. Ad esempio quello di far credere a certi episcopati già ribollenti che ciascuno può fare un po’ come vuole a casa propria – è il “non sarà Roma a dirci come dobbiamo comportarci qui” del cardinale Reinhard Marx – anche arrivando al limite dello scisma. Francesco ha rallentato, col passare degli anni. Si è forse accorto che tanti fra coloro che inneggiavano un giorno sì e l’altro pure alla sinodalità, in realtà dietro a questa nobile parole nascondevano intenti diversi, che volevano mettere in discussione la stessa figura del Papa, del suo primato. La struttura stessa di “Santa Madre Chiesa Gerarchica”, come lui stesso la definì in un’udienza generale del 2014. Non a caso, il leader della fronda, il presidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. Georg Bätzing, ha già fatto sapere al mondo che è deluso da Francesco, considerato “troppo timido” sulle riforme. E’ la storia di quello cui viene dato il dito e poi si prende tutto il braccio: Bergoglio ha messo per iscritto che è sacrosanto concedere qualche autorità dottrinale alle Conferenze episcopali locali, e queste ultime hanno iniziato a sognare di farsi una loro Chiesa, importando dall’ortodossia il sistema dell’autocefalia. Nel caso tedesco, basterebbe poi ricordare una recente affermazione del teologo che Francesco citò al primo Angelus, Walter Kasper, mente finissima e padre nobile del campo riformista: “E’ il tentativo di reinventare la Chiesa” tant’è che “molti si chiedono se tutto questo sia ancora cattolico”

 

E’ in questo quadro complesso che si situa la riforma della curia romana: il tentativo di dare una struttura all’agenda di Francesco, che il prossimo anno avrà davanti a sé un’altra prova per cuori forti, il Sinodo sulla sinodalità che convoglierà a Roma le istanze di tutte le Chiese particolari, cercando la sintesi di quel movimento “dal basso” provocato dal Popolo di Dio “infallibile in credendo”. Le prime onde di quello che potrebbe rivelarsi un maremoto stanno già arrivando in Vaticano, con le richieste di svoltare su celibato, sacerdozio femminile, morale sessuale. Le domande della base, in fin dei conti, sono sempre le stesse, quasi a rivelare una forza centrifuga che non renderà semplice il lavoro di chi poi, assieme al Papa, dovrà mettere insieme e dare una lettura di tutto quel che alle latitudini più diverse della cattolicità si chiede. 

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.